Scrittura Creativa

ARTICOLI

AMBIENTE: ARTICOLO, SITUAZIONE GLOBALE

Incendi estate 2

Gli incendi sono di natura dolosa o no?

Ricordi di un incendio doloso.

Da bambina, abitando in Calabria, spesso sentivo mio padre parlare di terreni, uliveti, orti e alberi da frutto. La cosa mi entusiasmava non poco,

tanto è vero che, da adulta, trasferitami a Bruxelles, mi sono iscritta ad un corso organizzato dal Ministero dell’Industria e Foreste, della durata di 8 mesi.



Esso comprendeva lo studio della natura del terreno (argilloso, sabbioso, ferroso etc), botanica, floricoltura, agricoltura e potatura (tecniche di potatura, periodo in cui si effettua, cioè “a legno morto”), quando l’albero perde le foglie, per il periodo invernale, non vegeta. Ciò, per quasi tutti gli alberi da frutto, ad eccezione dei cosidetti “sempreverdi” (agrumi in genere, conifere, ulivi e pochi altri) che in effetti, mantengono le foglie verdi tutto l’anno.



Al corso abbiamo avuto qualche nozione di architettura del giardino e, quanto alla potatura, il nostro professore che ci spiegava la teoria in un locale dell’Orto Botanico di Bruxelles, (era anche direttore al Ministero delle Industrie e Foreste) ai primi di dicembre, ci portava a potare gli alberi da frutto (meli, peri e susini) nell’orto botanico di Sua Maestà Baldovino, Re del Belgio, a Vilvorde, zona fiamminga a pochi chilometri da Bruxelles e dal Palazzo Reale.



Tornando a mio padre, sempre da bambina, un giorno mi portò a vedere alcuni uliveti, non molto distanti da casa, dove pastori, proprietari di alcuni ovini, avevano incendiato piccole sterpaglie secche sottostanti.

Ovviamente, si trattava di incendio doloso: ai pastori faceva molto comodo perchè, alle prime piogge autunnali, spuntava l’erba tenera preziosa per il pascolo del gregge. Al contrario, al proprietario dell’appezzamento di terreno, la cosa scomodava molto in quanto, l’erba sarebbe spuntata sì fresca e tenera, ma ahimè, le fiamme avevano danneggiato seriamente i rami degli ulivi, carichi di frutti che avrebbero prodotto dell’ottimo olio.



Purtroppo, troppi anni sono passati da quell’episodio della mia infanzia, ma, con molta amarezza, quell’inconveniente si ripete ancora ai giorni nostri.

Allora si trattava di piccoli appezzamenti di terreno ma, basti pensare ai numerosi e grossi incendi di boschi e foreste di questa recente estate 2023.



Non dimentichiamo che il fumo di quelle dimensioni danneggia sì l’ambiente ma, molto seriamente, anche l’essere umano, soggetto a problemi respiratori, polmonari e dei bronchi, in particolar modo a bambini e persone anziane.



Beninteso, l’erba ogni anno ritorna ma, la distruzione di boschi e foreste, richiede secoli, prima che le piantine di conifere, faggi e betulle diventino adulte e formino nuovi boschi e foreste.



Oltre a questi danni, gli elementi inquinanti, tossici e nocivi per

l’ambiente – non favoriscono una crescita sana dei nostri bambini che, non potendo andare a saltare e divertirsi nei parchi giochi o fare gite nei boschi con le famiglie, si sentono oppressi, nervosi privi dei loro spazi e svaghi.



Considerando questa situazione, che speriamo non si protragga a lungo, quale sarà il futuro dei nostri figli e nipoti, per i quali aspettavamo un futuro migliore e, soprattutto, salubre e vivibile nel migliore dei modi?



Franca Montorro

Ladispoli 4.10.23



DOMENICA 27 GIUGNO 2021

L’ERA DEL COVID:

Che orrore!...sembra quasi una preghiera

a voi tutti buonasera.

Sì, ci siamo allontanati

ma, vedete siam tornati

NO, non siamo andati via

COLPA DELLA PANDEMIA!!

Colpa di quei due “villani”

arrivati a Spallanzani

(loro) sono stati lì curati

NOI, fregati e contagiati!

Guarda un pò sti mangia riso

strafottenti e col sorriso

proprio qui nel Bel Paese,

ci han costretti a far le spese....

Proprio immane s’ta pazzia,

quanta gente è andata via!...

senza bracci, senza un velo,

quella gente è andata in cielo!

Dentro un TRISTE sacco nero,

neanche un posto al Cimitero!

Dei parenti grande assenza

e i malati in penitenza!...

senza meta e senza fine,

butterem le mascherine?

Forse un prossimo futuro

sarà serio e meno duro

senza piu’ la mascherina

torneremo come prima?

Rassegnati e con prudenza

non perdiamo la speranza!

Riusciremo a mandar via

LA BASTARDA PANDEMIA!

Franca Montorro

Da Franca per il gruppo Artisti Naty” dell’anno 2020/2021

IL GUSTO DEI CIBI NEL PASSATO



Quanti rimpianti e nostalgia dei cibi del passato!

Essendo io abbastanza legata alle tradizioni, amante della buona cucina, semplice e genuina, mi ritengo anche discreta cuoca.

A volte, passando vicino ad una trattoria, un solo profumo proveniente da quella cucina, mi fa tornare indietro nel tempo e pensare a certe pietanze che preparava mia madre o mia nonna Francesca che, ormai non ci sono piu’!

La nonna era persona semplice, nata verso la metà dell’Ottocento, analfabeta, madre di sei figli, con un marito che faceva la spola tra Calabria e Argentina, lasciando alla nonna il peso e la responsabilità di crescere i figli nonchè l’impegno di occuparsi di un appezzamento di terreno di proprietà.

A dire il vero, il nonno aveva lasciato un pezzo di bosco abbandonato che, mio padre ed i fratelli, crescendo, avevano trasformato in frutteto, vigneto, molti alberi di agrumi ed ulivi.

Quanti ricordi! Ero una bambina vivace ma anche molto giudiziosa e, riflettendoci adesso, tutti quei ricordi, che sembrano accantonati e dimenticati in un angolo della mia vita trascorsa affiorano nella mia mente anche vedendo un semplice oggetto che mi riporta al passato ed all’infanzia.

La nonna Francesca tornava dal campo verso il tramonto e mi capitò una volta di vederla al suo rientro: accesse il fuoco al focolare, prese il treppiedi, vi adagiò una piccola teglia in terracotta quindi, un po’ d’olio d’oliva, un pezzetto di cipolla di Tropea e, una volta dorata, mise i pomodori tagliati a pezzetti e privi dei semi, alcune foglie di basilico – tutti prodotti suoi – e lasciò cuocere. Che profumino!

Durante il giorno, mentre la nonna era in campagna, la zia Antonia, giovanissima, aveva fatto i maccheroni in casa, con acqua e farina che, cotti e conditi con quel sughetto, erano la cena di nonna, le due zie che vivevano con lei e, quella sera, anche la mia cena. Una vera bontà!

Un ricordo può far venire l’acquolina in bocca? Ebbene sì!

E che dire delle polpette al sugo, col macinato di maiale casareccio di mia madre?

Per alcuni anni, sempre nel paesino dell’entroterra calabrese, mio padre allevava il maiale con i fichi d’India, mele, fichi ed altra frutta che noi non mangiavamo perchè magari un pò toccata da una parte.

In autunno e d’inverno veniva nutrito con ghiande e mais: alimentazione sana e nutriente.

A Carnevale però, - la bestiola – 120 chilogrammi – veniva macellata. Durante questa operazione noi bambini, io, mio fratello ed i miei cugini- d’età compresa fra i sei e otto anni – venivamo intrattenuti da una zia anziana, che ci raccontava favole o episodi della sua vita da giovane.

Quella carne veniva sezionata e, man mano, usata in cucina: in umido, alla griglia, le salsicce alla brace ed ottime polpette al sugo che mia madre preparava.

Nonostante bambina curiosa, l’istinto mi suggeriva di non andare ad assistere alla soppressione di quella povera bestia, soprattutto pensando che la sua morte sarebbe stato cibo per la mia famiglia e non solo.

Infatti, una parte veniva regalata ad amici e parenti, parte venduta ed infine, lasciata la parte per il fabbisogno della famiglia.

Come mai i cibi di un tempo erano cosi buoni ed appetitosi e, i giorni nostri, non hanno alcun sapore? Soprattutto la carne!

Forse sarà mia impressione, visto che non amo molto la carne ma, mi sembra che il pollo, il maiale o la carne bovina abbiamo TUTTE lo stesso sapore, ossia INSAPORE.

Forse colpa dei mangimi e prodotti strani con i quali questi poveri animali vengono allevati.

Che dire degli ortaggi? E la frutta? Saranno i pesticidi, i concimi chimici, i tempi di trasporto, i conservanti. In effetti, la frutta della grande distribuzione, non ha il profumo e la fragranza di quella del mercato e dei

piccoli produttori o, ancor meglio, di qualche pomodoro e qualche frutto del mio minuscolo orticello dove, anni fa, un limone pesava ottocentotrenta grammi ed una melagrana un chilo e novanta, rigorosamente BIO, perchè io non uso prodotti chimici ma, soltanto fertilizzanti NATURALI, quali lo Stallatico, il Compost che per anni ho fatto con resti di verdure, bucce di frutta e patate, cenere del caminetto a legna ed altri prodotti naturali.

Purtroppo, ai giorni nostri, i giovani, bambini e madri di famiglia – che non hanno tempo o voglia di stare ai fornelli, risolvono il problema del pranzo e della cena, servendosi dei fast food.

Personalmente, definisco quei panini – di plastica – e mi chiedo come mai i bambini impazziscono per quel cibo, di cui sono veramente ghiotti.

Nella mia infanzia, la meranda era una fetta di pane di grano, che mia madre faceva con una sua amica, strofinata con pomodoro e completata con olio di oliva, TUTTI prodotti di mio padre. Evidentemente abbiamo l’amore e la passione della terra e per cio’ che essa ci dà.

Anch’io, quando sono stanca o qualche brutto pensiero mi passa per la testa vado in giardino ad ammirare qualche bel fiore oppure elimino qualche rametto secco al mio limone o tolgo la cocciniglia bianca che distrugge le rose canine o rugose e, dopo poco, mi sento meglio ed appagata.

Forse questa mia passione nasce dal fatto che la nonna francesca curava la sua terra in modo amorevole, io starei sempre a fare cose in giardino: mi distrae e mi diverte.

Forse la nostra famiglia ha la terra nel DNA a tal punto che, mio padre, gravemente malato di tumore e molto sofferente, in punto di morte e sentendo imminente il suo distacco dalla terra tanto amata, chiese a mia madre di farlo seppellire lì, tra i suoi ulivi.

Tornando ai cibi, purtroppo i tempi cambiano, ma, penso che i cibi buoni e, saporiti li conosciamo e li sappiamo apprezzare TUTTI.

Dunque, viva la buona cucina ed i gusti del passato!







PANIFICAZIONE, PRODOTTI E GUSTI D’ALTRI TEMPI



19 OTTOBRE 2023



Che bei tempi quella della mia infanzia!

Ho ricordi indelebili di episodi che sembrerebbero ormai cancellati ma che ritornano puntualmente nella mia mente, ogni qualvolta sento un profumo di allora sia di cibi che degli aranci in fiore: che meraviglia il profumo della zagara!

Per esempio, fare il pane in casa, a quei tempi, era operazione complessa, pesante e di una certa competenza.
Fase iniziale: mia madre “donna Meluzza” diminutivo di Carmela – mi mandava a casa di un’amica – altro che sms o mail – all’epoca, era quello il mezzo di comunicazione che, a mio parere, era semplice e umano – certa Immacolata Sibbio, che aveva il forno. Esso era annesso all’abitazione e dovevo chiederle se il forno era disponibile il giorno in cui “donna Meluzza” doveva fare il pane.

Preciso che quel forno era “occupato” quasi quotidianamente da altre persone che, come mia madre, facevano il pane.

Intanto si diceva al mugnaio – persona non piu’ giovanissima e claudicante – che, al ritorno dal mulino, con il sacco di farina ottenuta dal grano che aveva ritirato da noi giorni prima e che trasportava a spalla, di depositarlo direttamente al forno: si evitava così, un piccolo tratto di strada.

Considero questo piccolo gesto segno di rispetto ed altruismo verso il prossimo cosa che, ahimè, adesso non esiste più.

A questo punto, mia madre, il giorno prima della panificazione portava al forno le frasche – ramoscelli di ulivo ottenuti dalla potutatura degli ulivi, effettuata da mio padre e lasciati seccare al sole.

Quindi, si chiedeva alla padrona del forno, quale

persona aveva fatto il pane per ultima ed andare a chiederle il lievito madre, indispensabile per fare il pane, perchè passava da una persona all’altra per tutto il paese.

Giunto il giorno per fare il pane, “donna Immacolata” che abitava a circa 100 metri da casa nostra e mia madre, d’inverno, si alzavano a mezzanotte o l’una, per impastare il pane. In una grossa madia di legno mettevano i 20 o 25 kg di farina, la fontanella al centro, dove si metteva il lievito madre, indispensabile e genuino ma, emanava un forte odore di acido.

Quindi, si versava dell’acqua tiepida per sciogliere il lievito ed il sale, grosso necessario.

A questo punto, alle due estremità della madia, mia madre e donna Immacolata cominciavano ad impastare con una certa forza finchè, affondando l’indice nell’impasto, capivano che era tutto a posto.

Si metteva un telo grezzo per coprire l’impasto, poi una o due coperte di lana e si lasciava lievitare. Nel frattempo mia madre e donna Immacolata tornavano a casa per dormire qualche ora. Alle 8 – 9 del mattino si tornava al forno, si procedeva a fare le pagnotte, tutte piu’ o meno della stessa grandezza, con una più grande per la padrona del forno.

Questo sistema era in uso all’epoca per pagare l’affitto del forno ed il lavoro della padrona.

Quindi, si preparava il forno ad una certa temperatura – che le massaie conoscevano a perfezione – e si infornava. La “bocca” del forno era rigorosamente chiusa da un coperchio di ferro a forma di mezza luna, finchè le donne capivano che il pane era cotto. Mi è capitato di assistere a questa operazione e, quel profumo di pane caldo è rimasto registrato nelle narici e nella mente. Che bontà!

Ogni tanto mia madre faceva il cosiddetto “pizzateru consatu” che consisteva in un po’ di farina di granturco impastata senza lievito, una pagnottina fatta con una grande foglia di cavolo, non trattato, olive nostre in salamoia, filetti di acciughe salate, poco sale, un pò di aglio, un pizzico di peperoncino macinato, origano, e “pumadora cu pizzu” tagliate a pezzetti e capperi;

il tutto condito con olio d’oliva.

Questa pagnottina rimaneva un po’ acquosa per cui veniva adagiata sulla foglia di cavolo e non messa in forno con le altre pagnotte e veniva messa davanti alla bocca del forno dove, con una specie di rastrello era stata radunata la cenere calda e qualche frammento di carbonella ardente.

La pagnottina così cuoceva lentamente ed emanava un profumo incredibile.

Ricordo che tutto cio’ che riguardava il “corredo” del pane – telo ect... - era di uso esclusivo del pane e non ad altro.











Economia Rurale

Come da bambini si puo’ interpretare e mantenere vivo un ricordo del sistema di economia rurale!

In effetti, queste piccole comunità vivevano con pochissimi soldi ma avevano quel pò che producevano, si accontentavano di poco, ma vivevano con dignità.

Tutti avevano un terreno, più o meno grande, di proprietà o in affitto, dove producevano verdure, patate, in quantità sufficente per il fabbisogno della famiglia. Il pane quotidiano, che aveva il forno, se lo guadagnava aiutando le persone che se ne servivano e che davano il prodotto finito.

Che tristezza il ricordo di una famiglia di otto figli più i genitori!

Non dimentichero’ mai un episodio a cui ho assistito personalmente: una sera piovosa di inverno, mia madre ando’ a casa loro per fare la pennicellina al più piccolo dei figli – mio compagno di scuola, eravamo in seconda elementare – il quale era effetto da tifo. Quel “clichè” mi ha toccato dal profondo del cuore! Quelle dieci persone sedute attorno al focolare, con un calderone sul fuoco dove, in molta acqua galleggiavano cubetti di patate americane, senza pasta nè olio e quella, purtroppo, era la cena, di quella numerosa famiglia! Eppure, nessuno si è mai lamentato, neppure il mio coetaneo! Non ha mai parlato di quella situazione a noi compagni nè, tantomeno, alla maestra. Che dignità nonostante la tenera età! Il padre, con cui c’era un certo rapporto quasi famigliare, aveva confidato a mia madre che quell’anno erano rimasti in debito con il proprietario dell’uliveto che aveva in affitto.

Praticamente, si doveva consegnare al proprietario una certa quantità di olio ma, poichè quell’anno ci fu un susseguirsi di tempeste di piogge e di vento avevano fatto cadere le olive ancora acerbe e la resa dell’olio era stata molto scarsa.

In definitiva, quella famiglia era sazia solo di lavoro, dato che tutti loro, si erano occupati della raccolta delle olive con una certa sofferenza, rimanendo senza olio e nè soldi ma, DIGNITOSAMENTE!



Come si coltivavano i pomodori “cu pizzu”

Mio padre coltivava i “pumadora cu pizzu”, ossia pomodorini a grappoli con, all’estremità una punta “u pizzu”.

Essi richiedevano terreno un pò argilloso, necessitavano di pochissima acqua, la buccia un pò dura ma dolcissimi.

Era l’unica varietà che durava per l’inverno, oltre Natale.



In Campania vengono chiamati i “i pennuli”, cioè quelli che pendono. Si presentano in grappoli “schiocchi”, con due – sette pomodorini che, messi su una cordicella, venivano inseriti alternando i grappoli fino a formare una bella “corona” dai colori rosso, verde biancastro.

Mia madre era molto abile a preparare i “schiocchi”, mentre mio padre, piantava dei chiodi in alto, sulla facciata di casa e, oltre all’utilità invernale, avevano un certo effetto decorativo.



Pensando ai capperi mi affascinavano non poco – quando andavo con il treno alla stazione termini – le numerose piante di capperi che vengono giù dalle vecchie mure, nei pressi della Stazione, prima che il treno entri ai binari “Laziali”.

Quelle piante sembrano volerci insegnare che serve poco per vivere o, meglio, sopravvivere: basta sapersi accontentare!

Esse non hanno cure, acqua o fertilizzanti di cui nutrirsi eppure, si inseriscono in quelle piccole cavità, tra una pietra e l’altra, una fessura, tra un mattone e l’altro, nutrendosi di quel minimo di terra o polvere accumulatasi, povere di ogni sostanza organica.

Piante poco esigenti, che aspettano la pioggia per essere annaffiate.

Eppure, in condizioni estreme, sono rigogliose e danno i loro frutti.

Nessuno si arrampica su quei muri a raccogliere i capperi per cui i fiori che a maturazione appassiscono, seccano e dal calice che si apre, fuoriescono i semi, i quali, trasportati dal vento, si inseriscono, quasi con prepotenza, in quelle minuscole fessure per dare origine a nuove piante e nuove vite. Che lezione di vita queste piccole piante!

Noi, esseri umani, dobbiamo prendere esempio della struttura sociale di queste piccole piante, per vivere tutta la nostra vita!

Cio’ di cui abbiamo veramente bisogno è l’amore, la condivisione, l’uguaglianza ed il rispetto per il prossimo.

Oltretutto, sono di grande utilità ad altri esseri:

quando la pianta è in fiore, le api ne succhiano il nettare e sono anche di grande importanza all’impollinazione di alberi da frutto. In conclusione:

questi esempi ci insegnano che piccole piante si accontentano di poco e vivono bene.

Perchè noi non ci accontentiamo di poco, essere meno egoisti, aiutarci l’un l’altro proprio come i capperi e le api?.......



gennaio 24, 2024



LA MARCIA SU ROMA DELLA CINGHIALA CON I SUOI 7 NANI



E’ una giornata grigia di fine ottobre. In campagna, tra Cerveteri e Bracciano, da qualche casa rurale si avverte proprio l’arrivo dell’autunno: da quei comignoli esce il fumo di qualche caminetto acceso, dove la massaia sorveglia il padellone e gira le prime caldarroste, mentre il marito è intento a togliere lo zipolo alla botte, per assaporare il buon vino novello.

Che bontà! Il solo pensiero fa venire l’acquolina in bocca!

La campagna intorno annuncia l’imminente arrivo dell’inverno e del freddo: gli alberi a foglie caduche cominciano a spogliarsi, si notano le foglie di un colore giallino o marrone che, spinte dal vento, volano qua e là, facendo mulinello al piede di qualche grossa quercia o contro la rete di recinzione con l’appezzamento di terreno confinante.

In questa atmosfera grigia e silenziosa avanzo con passo lento, perchè, gravida – ormai agli ultimi giorni della mia gestazione – in cerca di cibo. Nel terreno adiacente c’è un castagno e una quercia e, dato che la giornata è ventosa alcune castagne cadono proprio in quel terreno. Anche dalla quercia vengono giu’ tante ghiande, di cui sono molto ghiotta e, se potessi, ringrazierei il cielo per quel ben di Dio! Menomale che ti ho incontrata, le tue deliziose ghiande mi hanno sfamato, grazie per la tua generosità”.

E la quercia.”vivo qui da tantissimi anni, le mie radici prendono sostentamento da questo terreno, il contadino cura amorevolmente, perchè arricchendolo a primavera, con il letame della stalla. Se i tuoi piccoli fossero già nati, oggi avrebbero avuto una lauta poppata, sana e bio. Come vedi, io vivo qui e mi accontento di quello che ho, non faccio nessuno sforzo; il contadino mi da quello che può, la pioggia mi dà l’acqua ed io dò i miei frutti a chi ne ha bisogno”.

La cinghiala: “sei veramente altruista e generosa. Come sarebbe bello il mondo se fossimo tutti così!. Riempita la pancia ed ancor piu’ appesantita continuo il mio peregrinare in cerca di qualche cosa. Cosa? Cibo sicuramente no, forse una tana, una grotta o un rifugio dove far nascere e tenere al riparo i miei piccoli fino allo svezzamento o, comunque, fino all’arrivo della bella stagione.

Nonostante la stanchezza, continuo il mio iter verso l’ignoto o forse l’infinito. Da Bracciano ormai ho fatto tanta strada ma, stanchissima e con pazienza e tenacia, seguo il bosco, costeggiando la Via Cassia che, se non ricordo male, il padre bonanima dei miei figli, morto in una battuta di caccia, dalla quale io mi sono salvata per miracolo, mi aveva detto che la Cassia porta a Roma, dove i cassonetti dei rifiuti, anche se maleodoranti, ricchi di insetti e batteri, abbondano di cibo e frutta che, i signori benestanti buttano quotidianamente. Che meraviglia! Cibo a volontà senza tanta fatica!. In quei cassonetti, oltre al cibo, pare ci siano oggetti pericolosi: pezzi di vetro, ritagli di metalli, pezzi di legno con chiodi etc. Etc e cammina che ti cammina, finalmente trovata la nursery per partorire: una specie di grotta, in mezzo a rovi ed erbacce, con una lastra sporgente sopra l’entrata a mo’ di tettuccio di protezione dalla pioggia al momento di entrare. Non mi sembra vero aver trovato una dimora! Una sera, sdraiata, nella nursery di fortuna, mi sento un po’ rilassata, quando, all’improvviso, dei forti dolori al basso ventre mi fanno quasi rimpiangere di essermi fermata e sdraiata. Che sarà mai? Che sta succedendo? Essendo il mio primo parto, non capisco il perchè di quei dolori e quella sofferenza che, putroppo, vanno avanti per tutta la notte.

Ai primi chiarori dell’alba, un dolore piu’ forte, al quale segue una spinta incredibile verso il basso ventre, vedo spuntare una testina scura, umida, con due occhietti neri e vivaci che mi osservano quasi per dirmi: “grazie per avermi dato la vita, ma con un dolce rimpianto per dover lasciare quel calore che per tante settimane, mi ha accompagnato e protetto in quel ventre materno”.

Da quel momento, la stanchezza, i dolori del parto e la sofferenza vengono appagati da quello sguardo cosi tenero e pieno di amore che mi fissa. E’ il mio primo cucciolo e gode dell’esclusiva delle mie emozioni e gioie indescrivibili.

A lui, quasi in un susseguirsi di dolori sopportabili, seguono altri sei esserini, altrettanto teneri e pieni di vitalità.

La luce del giorno illumina la nostra nursery e mi sento la mamma piu’ felice del mondo, vedendo l’espressione dei miei “sette nanetti”. Insomma, sono mamma di una famiglia numerosa e devo darmi da fare per far allevare questi figlioli.

Girovagando, trovo un minimo di cibo: qualche bacca, gli ultimi scarti di frutti un po’ rovinati perchè rimasti a terra dal raccolto estivo, insomma quel po’ per dare un minimo di latte ai miei cuccioli.



Sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare, vedo sprecciare degli oggetti luminosi in una certa direzione: non sono esseri della mia specie perchè, in tutta la mia vita, non ne ho mai visti di simili. Sono molto grandi, vanno velocissimi, tutti nella stessa direzione.

Intanto i miei cinghialotti crescono e diventano sempre più esigenti, affamati e rompiscatole. E’ ora di seguire quegli oggetti luminosi e diabolici nella velocità.

Con tanta buona volontà e qualche sacrificio, finalmente si arriva nella grande Capitale: cassonetti pieni di ogni ben di Dio; altro che Cornucopia!Avanzi di cibo in abbondanza, ma anche cose pericolose: pezzi di vetro, ritagli di metallo, pezzi di legno con chiodi. Mentre cerco di fare la cernita tra cibo e cose pericolose, si affaccia, da una scatola di cartone unta e bisunta, un amico inaspettato: un grosso topo, dall’aria del grande chef.

Che fai qui?”

La cinghiala “penso che siamo qui per lo stesso motivo: MANGIAAARE!

Il topo: ma lo sai che questo è il mio territorio? Non mi hai mica chiesto il permesso”

Ma io sono profuga e non conosco regole; ho già affrontato un viaggio difficile, attraversando boschi e pericoli, senza mangiare per tanti giorni: lasciami rifocillare almeno adesso in questo ben di Dio. Soltanto quel po’ che basta a fare un po’ di latte per i miei “sette nani”!.

Certo che questi romani mangiano troppo e buttano anche troppi avanzi di cibo: mah per cui “ben per te e per noi”. Non essere egoista, suvvia, diciamo con gratitudine: “viva SPQR”.







DA QUALCHE ANNO SI E’ INSERITA NEL NOSTRO DIZIONARIO UNA NUOVA PAROLA “NEOLOGISMO” CHE, AHIMOI, AVREMMO PREFERITO NON CONOSCERE!

INFATTI, MENTRE IN PASSATO L’UCCISIONE DI UN UOMO O DI UNA DONNA SI CHIAMAVA OMICIDIO, OGGI IN TERMINI MODERNI, L’UCCISIONE DI UNA DONNA SI CHIAMA FEMMINICIDIO. CHE ORRORE HA IN SE’ QUESTA PAROLA.



NOI DONNE SIAMO STATE ABITUATE, FIN DA ADOLESCENTI, A CONVIVERE CON IL DOLORE E CON IL SANGUE, SIA NEL PASSAGGIO EVOLUTIVO – DA BAMBINA A DONNA – SIA NELLA PROCREAZIONE.

DUNQUE LA PERCEZIONE DEL DOLORE E’ UNA COSTANTE NELLA VISTA DELLA DONNA, SOPRATTUTTO IN QUELLA DELLA FUTURA MADRE CHE NE DETERMINA LA FORMAZIONE CARATTERIALE.

MA QUESTO NON PUO’ GIUSTIFICARE LA VIOLENZA SUI LORO CORPI!



SULL’ARGOMENTO FEMMINICIDIO, HO SEGUITO MOLTI CASI ALLA TV DAL TITOLO “AMORE CRIMINALE” E, SONO RIMASTA TERRORIZZATA DA UN CASO IN PARTICOLARE, DOVE UNA DONNA, MALTRATTATA, DISPREZZATA E PICCHIATA SELVAGGEMENTE, DECIDE DI ANDARE DALLA MADRE, CON I BAMBINI PER UN BREVE PERIODO.

LUI CONTINUA NELLE SUE IDEE CRIMINALI: INSULTI, PEDINAMENTI, MINACCE ED APPOSTAMENTI, LA INVITA AD UN ULTIMO INCONTRO PER CHIARIRE – DICE LUI – ALCUNI PUNTI.

LA DONNA, INGENUA ED IN BUONA FEDE – MAGARI ANCORA INNAMORATA – NONOSTANTE I GENITORI LA PREGHINO CON INSISTENZA DI NON INCONTRARLO, SI RECA ALL’APPUNTAMENTO DOVE, PURTROPPO, TROVA LA MORTE!



PURTROPPO, DI QUESTA CULTURA AL MASCHILE, E’ PIENO IL NOSTRO PAESE. E’ LA FAMIGLIA CHE ANCORA UNA VOLTA RIPERCORRE IL MODELLO SOCIALE DELLA FAMIGLIA PATRIARCALE. MOSTRA DI AVERE UN DEBOLE PER IL FIGLIO MASCHIO E CREA IL “SUPER MASCHIO”!

CIO’ SIGNIFICA CHE IL MASCHIO DEVE ESSERE SUPERIORE A TUTTI ED IN TUTTO, DEVE FAR CARRIERA, IMPORSI, ESSERE RICCO E PRIMEGGIARE SEMPRE.

DA ADULTO, DOVRA’ TROVARE UNA DONNA CHE LO ACCUDISCA, CHE CONTINUI IL RUOLO DI SUA MADRE, DARGLI MOLTA IMPORTANZA, ESSERE SOTTOMESSA, OBBEDIENTE E BRAVA NELLE SUE MANSIONI DI MADRE. LUI DEVE ESSERE IL MEZZO TRAINANTE DELLA FAMIGLIA! QUANDO AVRA’ UN FIGLIO MASCHIO LA MOGLIE DOVRA’ TRATTARLO ED EDUCARLO COME LA MADRE HA FATTO CON LUI INSOMMA, CRESCERE A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA E SE ALLA MOGLIE VENISSE L’IDEA DI ABBANDONARE IL TETTO CONIUGALE, SAREBBE UN SACRILEGIO TROPPO GRANDE DA ACCETTARE CHE VA PUNITO CON LA MORTE.



UN MARITO UCCIDE LA PROPRIA MOGLIE PERCHE’ OSSESSIONATO CHE LO TRADISCA. IN REALTA’, CON I MEZZI SOFISTICATI ATTUALI, MARITI, COMPAGNI, FIDANZATI CONTROLLANO TUTTI I MOVIMENTI CHE FANNO LE LORO DONNE: CON CHI VANNO, DOVE VANNO, COSA FANNO A TAL PUNTO CHE, QUESTE SI SENTONO CONTROLLATE E PERSEGUITATE. BASTA UN SEMPLICE SALUTO AD UN AMICO, MAGARI EX COMPAGNO DI SCUOLA, CHE SCATTA SUBITO LA MOLLA DIABOLICA:

CHI ERA QUELLO CHE HAI SALUTATO?”



SE AL TRADIMENTO O, PRESUNTO TALE, SI RISPONDE CON IL FEMMINICIDIO, OVVERO CON UNA CONDANNA A MORTE, CIO’ CI RIPORTA A QUELLE POPOLAZIONI TUTT’ORA ESISTENTI IN CUI IL TRADIMENTO VIENE PUNITO CON LA LAPIDAZIONE.

Le DONNE PERO’ AL TRADIMENTO DEI MARITI NON RISPONDONO CON UN COLTELLO MA, SEMPLICEMENTE LASCIANDOLI.



DOVE STIAMO ANDANDO? CHE DIREZIONE STA PRENDENDO LA NOSTRA CULTURA? CI DOVREBBERE ESSERE LO STATO A DARCI UNA RISPOSTA COME GIUSTAMENTE HA DETTO LA

SORELLA DI GIULIA, LA CENTOTREESIMA VITTIMA DEL 2023.



MITOLOGIA: GLI DEI DELL’OLIMPO E LA COSTELLAZIONE DEL CAPRICORNO



Cos’è la mitologia? Frutto di fantasia o leggenda?

Personalmente, questo nome mi ha sempre intrigata e affascinata tanto che, la mia primogenita si chiama Arianna.

Da giovanissima, con lo studio dell’Iliade e dell’Odissea, mi sembrava di vedere certi personaggi o certi luoghi: il bellissimo Achille, l’antro della Maga Circe, sulle coste laziali, o le Sirene Scilla e Cariddi, figlia di Nettuno, dio del mare, ambedue esistenti, piccoli promontori, una di fronte all’altra, sulle coste calabresi, di cui Scilla vanta una graziosa cittadina sul mare.

I due “mostri” come li definisce Omero nell’Odissea, ingoiano l’acqua del mare con avidità per poi buttarla fuori – tre volte al giorno – con impeto, provocando tempeste molto pericolose. Pare che questo fenomeno dipendesse dalla furia di Ercole, al quale aveva rubato i buoi e, nonostante figlia di Nettuno, Cariddi non aveva scusanti per quel gesto cosi grave che, suo padre giudicava giusta quella punizione! Tutto ciò aveva causato enorme disagio a Ulisse che, di ritorno dalla guerra di Troia non vedeva l’ora di tornare ad Itaca dove, da dieci anni lo attendevano la moglie Penelope e il figlio Telemaco.

Le sue peripezie sembravano non avessero fine! ogni qualvolta sperava di avvicinarsi alla sua Itaca, bufere, trombe d’aria ed inconvenienti vari lo bloccavano. L’astuto Ulisse non era certo “uno stinco di santo” !

Di marachelle ne aveva fatte fin troppe, e non era un caso o sfortuna, ma era perseguitato e punito da Nettuno, al quale aveva privato il figlio Polifemo dell’unico occhio al centro della fronte. Ma dopo dieci anni di sofferenza e vari disagi, finalmente Ulisse arriva in Patria e può abbracciare il figlio e l’amata consorte.

Concludo che, anche se la mitologia fosse frutto di fantasia, esistono alcune testimonianze che avverano la realtà: la dimora di Circe al Circeo, meta di turisti e visitatori, con un mare ed un panorama stupendi!

Altro esempio: Scilla e Caridde le ho sempre viste, andando in treno dalla Calabria a Messina.





Altra realtà della mitologia: LA COSTELLAZIONE DEL CAPRICORNO



Si racconta che Zeus (Giove), Re dell’Olimpo, abbia trascorso tutta la sua infanzia in solitudine, sul monte Ida, nell’isola di Creta.

Si intende solitudine, senza la compagnia di altri bambini ma, le Ninfe dei boschi si occupavano amorevolmente di lui, lo accudivano ed intervenivano ad ogni sua necessità.

Oltre a queste cure materiali, Amaltea, una caprettina bianca, forniva al piccolo Zeus tutto il suo latte, buono e nutriente, per cui il bambino crebbe sano e vigoroso. Un giorno, però, Amaltea si ruppe un corno; le Ninfe lo raccolsero e lo portarono a Giove, ormai grandicello, che lo toccò e quello cominciò ad ingrandirsi rapidamente – con grande gioia e stupore delle Ninfe – divenendo così largo e grande come un grosso e bel vaso di terracotta.

Esso si riempiva di fiori e buona frutta e, man mano che veniva vuotato, si riempiva di nuovo. Che meraviglia! A questa vista, una delle Ninfe esclamò: “il latte di Amaltea ha fatto crescere il nostro Zeus. Esso sarà d’ora in poi, il corno dell’Abbondanza o Cornucopia.

Lo regaleremo a quel contadino povero che non conosce la pigrizia, saggio e generoso, che non allontanerà mai un povero pellegrino che si recherà da lui, riempiendogli la bisaccia di buona frutta. Il contadino avrà per sempre la Cornucopia, piena di frutta, preziosa per se e per i suoi “ospiti”.

Amaltea non ha mai saputo le conseguenze positive del suo corno rosso!

Morì di vecchiaia, in una notte fredda d’inverno. Da quel momento apparve in cielo un nuovo gruppo di stelle, a forma di capra, che gli uomini definirono “la costellazione del capricorno” che brilla ancora ai giorni nostri e ciò a prova che la mitologia non è solo e sempre immaginazione ma, grazie a Dio, a volte dolce e piacevole realtà.Febbraio 24




LA TRATTORIA DAL “ SOR RICHETTO”




Di ritorno da una passeggiata al Gianicolo, dove il profumo dell’erba appena tagliata mi riempiva il cuore, in un giorno in cui la tristezza prendeva il sopravvento al mio solito buon umore, uscivo da Porta San Pancrazio, con passo un po’ svogliato, imboccai Via Giacinto Carini e, con immenso stupore, notai che, dove ai tempi della mia adolescenza – 15 – 16 anni – all’angolo tra Piazza Rosolino Pilo e Via Carini, c’era la trattoria del “Sor Righetto”.

Iin quella sala cinematografica, io e mia cugina Fiammetta, mia coetanea, facevamo indigestione di Musicarelli. Negli anni ‘60, erano films simpatici che, cantanti di quel periodo (Morandi, Celentano ed altri) facevano, intitolandoli alle loro canzoni di maggior successo.

Era quasi ora di pranzo: nell’aria un odorino di coniglio alla cacciatora, molto invitante e stuzzicante. A parte la fame, che cominciava a farsi sentire, la curiosità di vedere quel locale trasformato e l’impazienza di mangiare qualcosa di buono dal Sor Richetto, non mi trattennero più. Entrai e mi sedetti, ambiente semplice ed accogliente, sedie impagliate di giunco, alla vecchia maniera, tovagliette di cotone sui tavoli da 4-6 posti, con fantasie a scacchi bianchi e blu, bianchi e rossi, insomma, sembrava quasi di entrare in una camera da pranzo di operai di altri tempi. Nemmeno l’ombra del menù, dato che il cameriere elencava sul momento le pietanze, soprattutto le specialità della cucina romana: fettuccine al ragù, trippa al sugo col pecorino romano d’obbligo, rigatoni con la pagliata (pajata) ed altre delizie.

Dalla porta aperta che dava accesso alla cucina, ogni tanto cercavo di sbirciare qualche curiosità: attaccati alle pareti tegami, pentole e padelle di rame, tutti messi in un certo ordine, rame di quel rosa martellato e brillanti.

Man mano che entravano i clienti, notai che servivano il vino in recipienti di vetro (litro o mezzo litro), con al centro una specie di timbro di piombo, che conoscevo molto bene perchè li usava anche la mia nonna Francesca, quando ero bambina, e vendeva il vino di sua produzione.

Visto che il pranzo mi aveva soddisfatto, ne parlai ai miei parenti e, una sera io, i miei zii e mia cugina, andammo a cena. Ci fu indicato un tavolo vicino alla parete divisoria con il retrobottega. Ad un certo punto udimmo, un bisbiglio di voci che noi riuscimmo a capire perchè non eravamo lontani dalla parete divisoria. Si trattava di una piccola discussione tra il Sor Richetto e i suoi due dipendenti: Claudio e Vittorio. Quest’ultimo, già caposala, pur di aumentare il suo grado lavorativo, faceva lo sgambetto al collega Claudio, più presentabile, bravo e competente, arruffianandosi al “Sor Richetto”.

“Sor Richè, non vi preoccupate se non avete il tempo per occuparvi delle commissioni della vostra famiglia – la spesa, comprare il regalo del piccolo Piero, le scarpe a Mariuccia, accompagnare Sofia a danza – penso a tutto io!”

A queste frasi, immaginavamo la reazione di Claudio, molto serio, signore e discreto, sentire tutte quelle smancerie, roba da farsi rodere il fegato!....

Sentendo queste ingiustizie ed, avendo io carattere impulsivo e a difesa di chi lavora bene, avrei avuto voglia di intervenire e dire al Sor Richetto che la lamentela di Claudio era giusta e obiettiva.

Ovviamente, non avendo io voce in capitolo, dovetti starmene zitta ma, dentro di me pensavo: “ma perchè in questo mondo vanno avanti certi ruffiani che, “scodinzolando” dietro ai loro datori di lavoro, passano davanti ai loro colleghi spesso più capaci e più bravi?

A parte ciò, tornavo spesso al vecchio Vascello perchè quel posto mi riportava indietro nel tempo quando, adolescente, sempre con i miei parenti, e mia cugina andavamo a mangiare una pizza. A quei tempi, mi sembrava di vedere tutto in bianco e nero, forse a causa dei programmi in TV che, effettivamente, erano così.

La discussione del Sor Richetto con il suo dipendente, mi portò ad un altra più remota, da me vissuta una domenica sera, in cui andammo a mangiare la pizza al Vascello. Entrò un uomo dall’aspetto imponente che doveva cenare. Era solo, senza famiglia al seguito, nè compagnia femminile: strano per una domenica sera in pizzeria!

Il proprietario di allora si chiamava Sor Nando e conosceva benissimo quello strano individuo di Vito, odiato ed evitato da molte persone. Era stato fascista e, durante la guerra, aveva avuto comportanti asociali e disumani. Tra l’altro, si diceva che avesse segnalato che, una famiglia di contadini della zona S. Paolo, all’epoca rurale, nascondeva nel fienile una famiglia ebrea con bambini, destinati alla deportazione.

Durante la guerra molte famiglie romane nascondevano nelle loro case partigiani, dissidenti politici e ragazzi richiamati per andare al fronte. Il Sor Nando, invece, assumeva molti ragazzi giovani come camerieri perchè, a modo suo, pensava di fare del bene. Tra questi, c’era Ciro, napoletano, che allora aveva la mia età, meno fortunato di me che studiavo e lui, invece, doveva lavorare, perchè aveva sei fratelli più piccoli ed i genitori disoccupati per cui doveva pensare al sostentamento della famiglia. Data la mia giovane età, non capivo certe cose ma, rincasati dopo la cena, mio zio Pietro, antifascista sfegatato, mi spiegò la storia di tante famiglie e bambini che non avevano neppure un pezzo di pane, tant’è che in Calabria, mia terra di origine, nacque una filastrocca in merito che, con l’aria di Lilì Marleen faceva così:

“TUTTI LI IORNA CU CENTUGRAMMI I PANI VAIU MU LU PIGGHIU E MI CADI DI LI MANI. ARRETU I MIA NC’ERA NU CANI CHI MI MANGIAU TUTTU LU PANI; O MAMMA, O MAMMA FAMI. O MAMMA O MAMMA FAMI!!!”

Pare che, durante la guerra, le famiglie ricevevano piccoli aiuti alimentari razionati, 100 gr di pane pro capite al giorno, dall’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) ed altre piccole quantità di derrate alimentari, tanto per sopravvivere! Chi, invece, aveva qualche spicciolo, andava, con qualche compagno di sventure, in Ciociaria o in qualche casetta rurale a comprare legumi, un po’ d’olio, piccole quantità di viveri, col sistema BORSA NERA, cioè non dichiarati, a prezzi molto elevati.

Le madri di famiglia, in quel periodo, per avere qualche soldo si prostituivano.

Ciro era nato durante la permanenza degli Americani a Napoli. Anche sua madre, purtroppo, subito dopo la guerra, si prostituiva per poter dare da mangiare alla famiglia.

Vito doveva essere servito da Ciro, ma si rifiutò, insultandolo pesantemente:

“Ma, che fai quì piccolo negro! Non accetterei mai di fare avvicinare al mio tavolo un essere sporco ed incompetente come te”

Il ragazzo, umiliato, si bloccò, guardava per terra e tremava, si sentì proprio ferito nel suo intimo, quasi non fosse un essere umano ma, un oggetto inutile e da distruggere.

“Và piuttosto al Porto, a rimediare qualche stecca di sigarette, che poi venderai di contrabbando per portare qualche spicciolo a casa e sfamare quei mocciosi dei tuoi fratellastri, in quel basso, sporco e umido, dove vivete, in quella specie di tana, come i topi. Pensi che, aspirando a fare il cameriere potresti elevarti socialmente? Povero scugnizzo illuso! Per me, staresti meglio in miniera ad estrarre il carbone: sul tuo muso, non si noterebbe neppure la polvere nera!... ti manderei a fare i lavori forzati oppure ad estrarre lo zolfo nelle miniere così, con quel forte odore, non ti avvicinerebbero neppure le pulci e le mosche, di gran lunga superiori a te e meglio di te. Hai capito negretto?”

Anche se molto giovane, sentire discorsi così crudeli, disumani e senza un briciolo di pietà, mi sentivo male: disprezzare e maltrattare un povero ragazzetto, indifeso, solo perchè aveva bisogno di lavorare e pieno di buona volontà di aiutare la famiglia a sbarcare il lunario, ero proprio sconvolta!.

Perchè tanta cattiveria gratuita? Dov’ era l’amore per il prossimo? La vera carità cristiana, soprattutto in un periodo così difficile in cui mancavano alimenti di prima necessità?

Perchè Ciro non reagiva e non si difendeva agli insulti di Vito? Forse per paura di quell’aspetto imponente e burbero oppure, a mio giudizio, Ciro, anche se povero, figlio della strada, era un animo nobile e rispettoso nei confronti di una persona più grande!

Quel Vito, con una reputazione negativa acquisita durante la guerra, assieme alle sue idee criminali, che lui non aveva mai abbandonato, non voleva o non si rendeva conto che non l’avvicinava nessuno per la sua cattiveria e crudeltà per cui era soprannominato il fascistone.

Ma chi era Vito? Magari aveva i soldi guadagnati di certo non lavorando ma, in qualcosa di losco e disonesto! La sua idea malsana, della supremazia della razza, del disprezzo verso i più deboli e bisognosi, lo rendevano borioso, iprocrita e strafottente. La guerra non era stata certo una passeggiata, ma sicuramente, l’elemento Vito era stato peggio della guerra stessa!...

Il Sor Nando non ne poteva più e decise di dare “una sistemata” a Vito!...

Intanto, con voce dolce, disse a Ciro: “aspettami in cucina, ti raggiungo a momenti.”

Neppure i miei parenti poterono più sopportare il comportamento di Vito e mio zio decise di andare via. Mentre cercava il Sor Nando per pagare il conto, lo vide vicino al tavolo di Vito, paonazzo e pronto ad esplodere: “Ehi, ma chi si crede di essere per trattare così il mio dipendente! Fino a prova contraria QUI, il padrone sono io e rispetto i miei dipendenti, quindi, non permetto a NESSUNO di trattarli male, brutto residuo di fascismo, essere spregevole, vada a farsi curare e le consiglio di non frequentare più luoghi pubblici dove c’è gente perbene e rispettosa, non marmaglia di basso livello come lei! Vada via subito, non voglio che paghi neppure il cibo che si è appena ingozzato, non voglio avere a che fare con certi elementi da strapazzo! Via, via!”

Mio zio , e noi con lui, applaudimmo il Sor Nando per il suo gesto umano verso quel povero Ciro. Subito udimmo un piccolo “toc” che aumentò velocemente, in un crescendo rumoroso ed incessante di applausi da tutta la sala dei clienti, soddisfatti del trattamento del Sor Nando all’ignobile Vito!

Questi, sentendosi tutti contro, si strappò con violenza il tovagliolo fissato al collo della camicia, si allontanò con fare marziale, come un ufficiale a cui è stato strappato il grado, con la stessa violenza con cui si tolse dal collo il tovagliolo. Questa immagine mi portò alla realtà.

Dopo alcuni anni, tornai alla trattoria, a cui mi ero affezionata. Guardai, l’insegna – che non era più dal “Sor Nando” - ma “Ristorante-Pizzeria LA BELLA NAPOLI, da CIRO”.

Essa mi riempì il cuore di gioia ed emozione e pensai: “bravo Ciro, ce l’ha fatta!...”

Entrai e presi posto. Mi soffermai a guardare con insistenza il proprietario perchè immaginavo il ragazzetto adolescente ai tempi del “Sor Richetto” ma, invece, avevo di fronte un uomo maturo e non più il ragazzo affamato di allora. Anche lui mi osservava curioso e, magari in cuor suo si chiedeva: “ E’ lei, non è lei?la ragazza adolescente di tanti anni fa”.

Fu allora che scoprimmo le nostre identità. Dopo i complimenti a Ciro, proprio come due amici di vecchia data, volle servirmi personalmente, consigliandomi il piatto tipico della sua cucina: gnocchi alla napoletana.

Arrivò al mio tavolo questa specialità: un piatto fumante di gnocchi con sopra uno strato di mozzarella fresca, parmigiano e sugo. La pietanza emanava un profumo invitante che mi riportava alla realtà di un tempo lontano, ossia nella trattoria del Sor Richetto, dove, invece, c’erano i piatti tipici della cucina romana, in verità altrettanto buoni ed apprezzabili.

Ciro, ormai uomo di una certa esperienza e successo, ma semplice, con gli occhi buoni di un tempo, il fisico arrotondato, grazie alle sue ottime pizze napoletane, in barba ai lunghi periodi di fame subiti durante la guerra!.

Mi accolse in modo educato ed affettuoso, quasi famigliare, forse perchè eravamo, in un certo qual senso, cresciuti insieme, nonostante le nostre visite sporadiche e molto distanziate negli anni.

“Quanto tempo è passato!”

“sì è vero, ci siamo fatti vecchi”

“però tu, sei sempre una bella “guagliona””

“molto galantuomo, come sempre”

In quel momento pensai che la vita era stata avara con noi: se ci fossimo frequentati un pò, chissà, sarebbe potuto nascere un sentimento sincero, leale e profondo nonostante le nostre differenze.

Nel frattempo dietro di lui c’erano i due camerieri che, come in Parlamento, litigavano per la Poltrona. A Ciro non interessava il loro litigio banale: la guerra aveva insegnato loro le priorità della vita, quelle importanti, mentre i due, in definitiva, volevano raggiungere soltanto un grado più alto nel loro lavoro di camerieri e la loro “poltrona” in realtà, non era che una semplice sedia impagliata col giunco!.

In fondo, la loro “guerra” era senza armi, senza spargimento di sangue, senza odio e senza crudeltà. Ciro, invece, da adolescente aveva sì subito il disagio della guerra, la fame, la sofferenza e, non ultimo, il comportamento disumano del burbero Vito. La guerra per lui non era stata una passeggiata ma, neppure il dopoguerra dove, prima della ricostruzione, verso gli anni ‘50, fame e miseria continuavano ad imperversare con personaggi, nostalgici come Vito tuttora esistenti che, nonostante il passato vissuto,in prima persona, sembrano anche proliferare. La memoria dovrebbe servire a farci evitare gli errori passati ma, spesso, il nostro cervello, utilizzando una parola contemporanea “risetta tutto” e ricomincia il gioco senza esclusioni di colpi.

E’ proprio vero che la vita è un altalena: chi si comporta onestamente, lavora e rispetta il prossimo, SALE, è il caso di Ciro, chi, invece, è disonesto, crudele e disumano, SCENDE ( Vito) nelle profondità dell’inferno che se li porta via!


BIOGRAFIA

Mi chiamo Montorro Francesca (franca per gli amici), sono nata a Candidoni (RC),un minuscolo paesino nell'entroterra calabrese, a circa 15 km da Nicotera, posto incantevole sul Mar Tirreno.

Ho due figlie adottate, Arianna e Marzia, vivo a Valcanneto, tra Ceri, Ladispoli e Cerveteri.

Sono  stata vent'anni all'estero: 18 anni a Bruxelles, un anno a Londra e un  anno a Tokyo. A Bruxelles, ho lavorato per 4 anni alla Redazione di un  giornale Italiano, "il sole d'Italia", dove mi occupavo della pubblicità  (contatti con i clienti, traduzione di testi e piccoli annunci), altro  periodo come funzionaria alla Comunità Europea.

Ho vari  interessi: mi piace viaggiare, scrivere, ho seguito per circa 7 anni un  corso di teatro a Palidoro-Torrimpietra, con l'insegnante Natashia  Trivin "naty per il teatro".

Adoro i bambini, le scampagnate, ho l'hobby e la mania del giardinaggio in particolare sono abbastanza paziente e creativa.

Dicono di me che ho un carattere allegro, socievole, altruista, disponibile,accomodante, generosa e caritatevole: "deo grazia!"

Riconosco, però se mi fanno un torto molto grave. divento impulsiva ed aggressiva: esce il veleno dello scorpione!

Ad oggi seguo un corso di scrittura che mi piace e pare sia anche brava.

Parlo benissimo Francese, Inglese, un po' di Tedesco, Spagnolo e qualche nozione di Giapponese.

Non so usare il Pc, per cui, la telematica va a farsi friggere!

Scrivo tutto a mano (in genere lettere di lamentele a servizi che non funzionano etc.) e danno eco soddisfacente ed immediato.

Montorro Francesca


MUSICA LEGGERA o POP in ITALIA

 

Quando si parla dell’evoluzione della Musica leggera italiana, si fa riferimento a quel mitico Sanremo del 1958 nel quale Domenico Modugno, in giacca celeste come il cielo, si presentò sul palco allargando le braccia con il suo “Nel blu dipinto di blu” accompagnato dal “Sestetto azzurro” del Maestro Alberto Semprini, ma sarà stato veramente proprio così oppure c’è dell’altro un po’ nascosto?

La Musica pop, come si identificò in seguito in Italia la Musica leggera, iniziò ad evolversi nei primi anni del dopoguerra, anni in cui gli influssi delle musiche francesi e soprattutto americane, fecero timidamente capolino nel nostro modo di esprimersi con la canzone.

In Italia, genericamente la Musica pop era divisa tra le canzoni in lingua e quelle napoletane, queste ultime molto paludate ovvero spesso scritte da poeti come Salvatore Di Giacomo su melodie di grande valore.

Le canzoni in lingua risentivano dell’influsso sudamericano in chiave di tango oppure erano dei valzer o ancora imitazioni swing.

Durante il ventennio si era arrivati a tradurre in italiano non solo i titoli delle canzoni straniere ma anche i nomi degli artisti.

E’ buffo ricordare che il grandissimo Louis Armstrong venne tradotto in Luigi Fortebraccio e Benny Goodman come Beniamino Buonuomo. Il culmine di questa operazione tanto inutile quanto priva di senso si ebbe con “Saint Louis blues” tradotto come “Le tristezze di San Luigi”, senza capire che il termine blues non ha il significato di tristezza ma è un genere musicale proprio del popolo di colore americano.

Comunque, nonostante le esibizioni swing di Natalino Otto, di Alberto Rabagliati, del Trio Lescano, di tanti altri artisti dell’epoca sotto le direzioni di Pippo Barzizza e Gorni Kramer, un intraprendente cantante triestino, Ferruccio Ricordi, meglio noto come Teddy Reno, nel 1948 creò un’etichetta discografica indipendente, la CGD ovvero la Compagnia Generale del Disco, dando spazio a Jula De Palma, ad altre voci emergenti e a quel genio che fu Lelio Luttazzi.

Un anno dopo, nel 1949, a Napoli un giovane pianista, Renato Carosone (il nome all’anagrafe era Renato Carusone), insieme a Gennaro Di Giacomo detto Gegè, nipote del poeta Salvatore Di Giacomo e al chitarrista fantasista olandese Peter Van Wood formarono un trio modernissimo.

Si stava attuando e cercando di creare una nuova strada per rendere più attuale la canzone italiana.

Nello stesso periodo, un valente musicista torinese, Ferdinando Buscaglione più noto come Fred Buscaglione, iniziò una spumeggiante carriera che culminò con l’invenzione dell’amico paroliere Leo Chiosso che gli cucì addosso come un vestito, il personaggio del gangster da barzelletta con i baffetti alla Clark Gable, pieno di whisky e di belle pupe che gli ronzavano attorno.

Questi artisti furono i prodromi della nuova canzone italiana che guardò più a quanto arrivava da oltre oceano piuttosto che alla vicina Francia.

Un altro aneddoto volle che il brano di Modugno realizzato per quel Sanremo del 1958, fosse stato proposto ad altri cantanti come Claudio Villa e Nilla Pizzi i quali la rifiutarono dando vita così al termine “Cantautore”.

Questo buffo neologismo fu coniato qualche anno dopo probabilmente per lanciare un cantante della RCA Italiana, Gianni Meccia con la sua “Il pullover”, vocabolo successivamente utilizzato per indicare quegli autori di canzoni che scrivevano, parole, musica e le cantavano.

Negli anni attorno alla fine della guerra, negli States emersero i “crooner” ovvero i vocalist che da noi vennero identificati come “cantanti confidenziali”. Erano dei cantanti che si esprimevano senza far emergere la potenza della voce in contrasto con le qualità della stessa attraverso l’uso dei mezzi toni ed in qualche caso del falsetto.

Per lo più erano dei baritoni con voci vellutate tendenti al sexy.

Il capostipite fu Bing Crosby a cui seguirono tra i tanti Frank Sinatra, Perry Como, Dean Martin, Nat “King” Cole e Tony Bennett. Quest’ultimo con voce più tenorile che baritonale.

Nel frattempo e più precisamente nell’aprile del 1954 fece capolino Bill Haley con una canzone che era un misto tra Boogie woogie e Country music. Fece il boom ed il suo titolo era “Rock around the clock”.

In quegli stessi anni emergeva un altro idolo dei “teen-agers” americani, Elvis Aaron Presley che si propose con un brano dal sound particolare; “That’s allright (mama)” e fu così che nacque il “Rock and Roll”.

Questo termine fu usato da un DJ, Alan Freed nel 1951 per pubblicizzare questo nuovo modo di esprimersi in musica.

Accanto al “nuovo” ritmo, che tanto nuovo non era in quanto subito dopo la fine della II° Guerra Mondiale negli States emersero artisti di colore i quali, sulla spinta di quel “In the mood” lanciato dall’Orchestra di Glenn Miller, si proposero con una musica che era l’unione tra diversi generi, soprattutto “Blues” e “Country”; era una musica ritmata a cui fu dato il nome di “Rhythm and Blues”. Rimase però un’esperienza limitata ai “race records”, i dischi riservati alla fascia della popolazion di colore americana. Da qui ad Elvis Presley, il passo fu breve; bastò che la SUN, la casa discografica che aveva scritturato Elvis, gli affiancasse il contrabbassista Bill Black ed il chitarrista Scotty Moore per ottenere quel sound particolare che profumava di Country, di Blues e di Boogie woogie.

Il gioco fu fatto.

Era un periodo di grandi rinnovamenti e di crescita per gli USA e fu anche così da noi con un po’ di ritardo di qualche anno.

Ricordo che attorno al 1956 – 1957, un compagno di scuola di mio fratello aveva un grammofono in casa e ci fece ascoltare quel “Only you (and you alone)” registrato su 78 giri dai Platters, insieme ad un altro artista, per me sconosciuto, che era il vocalist dei Drifters di allora, cioè Jackie Wilson con la sua “To be loved”. Era un urlatore ante litteram.

Questo genere musicale non era Rock and Roll ma “Doo-wop”, un temine onomatopeico derivato dai coretti di accompagnamento vocale: “du du du du uaaaaaa”.

Ci volle ancora del tempo affinchè questo moderno modo di esprimersi in musica, prendesse piede in Italia ma era arrivato il momento esatto e Domenico Modugno lo colse tra il 30 gennaio ed il 1° febbraio del 1958 nel Salone delle Feste del Casinò di Sanremo.

Vinse Domenico Modugno insieme ad un giovanissimo Johnny Dorelli con “Nel blu dipinto di blu” su parole di Franco Migliacci e musica di Modugno.

Certo che il luogo, il brano, il momento furono perfetti per questo gigantesco successo, comunque l’interprete fu decisivo.

La voce un po’ nasale, il canto privo di vibrato, le note staccate e tronche crearono quel perfetto sound e fecero di Modugno un mito.

In quel Sanremo a competere vi furono molte canzoni, alcune seriose, altre allegre e spensierate. Tra le migliori si possono citare “L’edera” interpretata da Nilla Pizzi ed in seconda versione da Tonina Torrielli, “Amare un’altra” con le voci di Gino Latilla e di Nilla Pizzi, “Fantastica” per Johnny Dorelli e Natalino Otto, la divertente “Cos’è un bacio” per la coppia formata da Claudio Villa e Gino Latilla e l’altra interpretazione affidata a Gloria Christian.

Erano tutti brani che correvano sullo stesso binario di sempre; belle voci, melodie accattivanti, testi “politicamente corretti”.

Mimmo nazionale infranse tutto questo cantando la libertà di esprimersi in ogni maniera, con le braccia aperte, levate al cielo quasi riuscisse con quel gesto un po’ provocatorio a scardinare quelle catene che legavano il cuore con amore.

Ebbe un successo clamoroso continuato negli anni che è documentato dai 22 milioni di dischi venduti nel mondo e dalle numerose versioni in altre lingue portate al successo da artisti stranieri.

E’ curioso accorgersi con quanta forza la società metta dei freni, delle remore a tutto ciò che profuma di progresso infatti Modugno rivinse Sanremo l’anno successivo, il 1959 con un brano ancora suo e con le parole di Dino Verde, un umorista di valore. Il titolo era “Piove” e la canzone è più nota come “Ciao, ciao bambina”. Squadra vincente non si cambia ed infatti Modugno – Dorelli furono proclamati vincitori. Ma non era accettabile che costui continuasse a parlare di libertà, di capacità del singolo ad autodeterminarsi; era contrario al costume societario dell’epoca.

Infatti l’anno successivo gli proposero come antagonista nientemeno che Renato Rascel, con un brano scritto da lui e da Dino Verde, eseguita con l’altra versione da Tony Dallara.

Modugno presentò un brano da lui scritto in coppia con Franco Migliacci il cui titolo era: “Libero”.

Si tratta di una musica complessa, forse un po’ troppo anticipata in tempi di restaurazione, infatti la vittoria arrise a ” Romantica ”.

Paradosso fu il fatto che Tony Dallara la interpretò a modo suo, in maniera urlata con il fatidico singhiozzetto alla Tony Williams, il vocalist di The Platters, risultando così non più un ritorno alle origini ma un salto verso il futuro.

La restaurazione si effettuò l’anno successivo con la vittoria di Luciano Tajoli in coppia con Betty Curtis col brano “Al di là”.

Una musica banale con un testo ripetitivo senza valore.

Ancora un paradosso dovuto ad Adriano Celentano che si cimentava per la prima volta al Festival con “Quattromila baci”.

Venne sul palco e si voltò, dando le spalle al pubblico per poi girarsi con un salto incominciando a cantare. Scandalo! Come si permette?!?!

Bisogna tornare al 1959 per un altro motivo di scandalo a Sanremo.

La canzone “Tua” di Pallesi – Malgoni tra l’altro diceva: “…. Tua sulla bocca tua finalmente mia, così per sempre tua…” e Jula de Palma si presentò sul palco di Sanremo con un vestito molto bello ma che ai benpensanti bigotti ricordava una camicia da notte.

Le critiche pruriginose furono molteplici anche perché Jula aveva fatto dichiarazioni molto progressiste in materie nelle quali una donna non avrebbe dovuto mettere bocca.

Questo era il clima che si viveva in quegli anni nei quali non il Vaticano ma il suo braccio armato in politica, cioè la Democrazia Cristiana, dettava legge.

Ma c’è stato di peggio ad esempio in “Resta cu mme” di Modugno il verso “Nun m’importa d’o passato, nun m’importa ‘e chi t’ha avuto” fu censurato e fatto modificare in “Nun m’importa d’o passato, sulo lacreme m’ha dato” e così via per molte altre canzoni. La censura era irremovibile ed il sesso, tabù.

Comunque in barba a tutte le restrizioni il 1960 fu un anno importante, presero il volo artisti come Gino Paoli, Giorgio Gaber, Mina, solo per citare i più importanti. Costoro incarnarono un nuovo modo di eseguire le canzoni, chi come cantautore, chi come Mina, da interprete di gran classe di altissimo livello.

Sanremo fu una vetrina importante ma il successo di questi artisti fu determinato dalla vendita dei dischi insieme ai Juke Box disseminati dovunque negli stabilimenti balneari o nei bar alla moda.

Ecco risuonare “La gatta” di Gino Paoli oppure “Non arrossire” di Giorgio Gaber oppure infine “Il cielo in una stanza” composta da Gino Paoli nell’interpretazione “ever green” di Mina.

Gaber era un chitarrista che esordì nella band di Ghigo Agosti, quello che cantava “Coccinella”, per poi entrare nei Rock Boys di Adriano Celentano e per transumare nei Rocky Mountains Ol’ Stompers” (divenuti in seguito I Campioni) insieme ad Enzo Janncci al piano, Luigi Tenco e Paolo Tomelleri al sax con Gian Franco Reverberi alla chitarra. Fu scritturato dalla casa discografica Ricordi ed incise “Ciao ti dirò”, un rock and roll scritto da Giorgio Calabrese e Gian Franco Reverberi. Nel disco era accompagnato da Frano Cerri (chitarra) e Gianni Basso (sax), due tra i più importanti e noti jazz men italiani. Con questo curriculum si presentò sulla scena della canzone mietendo successi a valanga. Ha inventato il “Teatro – canzone” in cui si esibiva con monologhi satirici e canzoni graffianti al limite del beffardo e del sarcastico.

Gino Paoli, un giuliano prestato a Genova; l’icona dei cantautori genovesi.

I suoi incerti inizi lo videro autore di “La gatta”, “Il cielo in una stanza”, “Sassi”, con poco successo discografico finchè Mina non incise la sua “Il cielo in una stanza” iniziando così un percorso sempre in salita.

Paoli ha un modo tutto suo di porgere i brani dei quali spesso ne è l’autore del testo, un modo aspro, spigoloso, alle volte vicino alla stonatura, comunque estremamente fascinoso con qualche ricordo di canto gregoriano. Scrive brani per altri artisti, soprattutto per Ornella Vanoni, la sua musa, la quale incornicia d’oro “Senza fine”. Un valzer delicatissimo.

Il salto di qualità arriva nel 1963 con “Sapore di sale” diretto ed arrangiato da Ennio Morricone con l’intervento al sax di Leandro “Gato” Barbieri nel bridge. La sua vita personale è colma di avventure di cuore tanto che un giorno, preso dallo sconforto si spara un colpo di pistola ma il proiettile si ferma nel pericardio senza intaccare il cuore. Da allora vive con questo proiettile conficcato nelle carni.

Incise altri successi per qualche anno per poi sparire dalle classifiche.

Una lunga gavetta lo rivide sulla cresta dell’onda nel 1985 per un tour con Ornella Vanoni; nuove canzoni e nuovo approccio vocale. Spariscono gli angoli, gli spigoli, le asperità tanto da risultare perfino dolce ma mai sdolcinato.

Da allora in poi si costruisce il mito Gino Paoli, oggi quasi novantenne, amato, richiesto, riverito da un numerosissimo pubblico di fan.

La scuola genovese ci ha dato un folto numero di artisti oltre a Gino Paoli; ricordiamo Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Luigi Tenco e “last but not least”, Fabrizio De Andrè.

Umberto Bindi fu un autore di pregio che portò al successo numerose canzoni come “Il nostro concerto”, “Arrivederci”, “Non mi dire chi sei” e un’altra miriade di brani molto delicati.

I soliti benpensanti, bigotti criticarono irridendo Bindi per la sua non così palese omosessualità così come era accaduto negli States per Richard Penniman, conosciuto come Little Richard, l’autore di “Tutti frutti” e di tanti altri Rock and Roll da lui portati al successo.

Bindi fu sulla cresta dell’onda per parecchi anni per poi sparire definitivamente. Aveva una voce particolare, non bella ma piena di sensibilità da farlo apparire unico nel suo genere. Ricorso di lui una splendida “Nuvola per due” ed anche “Chiedimi l’impossibile”. Due brani delicatissimi eseguiti con estrema grazia quasi in barba ad uno stile canoro sui generis fatto di “crescendo” accompagnandosi al piano per creare un ambiente pieno di particolarismi tali da ricordare Gilbert Becaud nella sua “Et maintenant”.

Di Bruno Lauzi c’è da ricordare quel suo “Garibaldi blues” realizzata sul tema di “Fever” un successo di Peggy Lee prima e di Elvis Presley poi.

E’ stato autore di brani per altri artisti tra cui “Almeno tu nell’universo” affidata alla grande Mia Martini.

Lo ricordiamo per aver partecipato a Sanremo con un valzer musette, “Il tuo amore”. Un brano delicatissimo non capito ed ignorato dalle giurie tanto da far dire a Bruno di essere andato a Sanremo per “battere” quasi fosse una prostituta. Di lui i maggiori successi furono “Ritornerai”, “Margherita”, “Viva la libertà” e tanti altri.

Nel 1967 la tragedia di Luigi Tenco sconvolse il pubblico italiano.

Si era presentato agli inizi di carriera con pseudonimi diversi quali "Gigi Mai", "Dick Ventuno" e "Gordon Cliff", guardando a Nat “King” Cole più che a cercare un proprio stile. E’ stato anche clarinettista con i Jelly Roll Boys Jazz Band composta da Danilo Dègipo alla batteria, Bruno Lauzi al banjo, Alfred Gerard alla chitarra ed egli stesso al clarinetto.

Ha fatto parte di altre band più o meno note del periodo fino al 1962 anno in cui registrò “Mi sono innamorato di te”, “Angela”, “Cara maestra” ed altri brani a formare il suo primo LP.

Il grande successo non gli è mai veramente arriso, un po’ per il suo carattere scontroso un po’ per l’anticonformismo dei testi, tuttavia brani come “Lontano lontano” e “Se stasera sono qui” non si possono trascurare.

Quest’ultimo brano venne presentato dalla miagolante e un po’ lacrimosa Wilma Goich e poi reinterpretata da Mina in chiave jazzistica, con grande successo di entrambe.

L’amore travagliato per Iolanda Gigliotti, per le scene Dalida, lo convolse fino al suo tragico epilogo in quel Sanremo 1967 in cui si tolse la vita, così almeno dissero le cronache dell’epoca.

Di Fabrizio De Andrè c’è ben poco da dire se non che è stato un Artista a tutto tondo con una voce vellutata tendente al tono del basso. Portò in Italia un particolare modo di esprimersi in musica quasi da bardo medioevale; bastano le sue “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Via del Campo”, “Bocca di rosa” per decretarne il valore.

La sua “Geordie” fu un grande successo per Joan Baez.

Per saperne di più rimando ad un testo edito da Mondadori: “Fabrizio De Andrè – Sotto le ciglia chissà”.

Per la canzone italiana gli anni ’60 furono una vera e propria fucina nella quale la casa discografica RCA Italiana attinse a piene mani.

Tra i tantissimi artisti che militavano in questa etichetta emersero Gianni Morandi, Rita Pavone, Jimmy Fontana, Sergio Endrigo, Nico Fidenco, Edoardo Vianello, 1 Flippers tutti artisti che hanno avuto ruoli di grande importanza in quel momento di crescita musicale del Paese.

Non possiamo dimenticare altri giganti come Lucio Dalla e Lucio Battisti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                            

 

 

Maria Serena Cintura, nata a Roma il 13 settembre 1973 a Roma. Scrive da quando era adolescente, i poeti preferiti sono Arthur Rimbaud e più in là scopre anche Alda Merini. La ospitiamo volentieri nel nostro spazio perche' i suoi lavori sono degni di una lettura approfondita.

Ringrazia il professor Casoli per la sua positiva influenza durante la frequenza al liceo classico Platone. Ringrazia altresì la dottoressa Flavolti per i suoi preziosi consigli terapeutici per la vita.

 

 

 

 

 

 

NON SO'

non so' se vorrei uscire,

viaggiare in un'astronave

e trovare te

che mi aspetti in un'aura di calore

e dolcezza infinita

solo per me,

solo per me

 

CIAO

le poesie sono di maria serena cintura

una giovane poetessa di cerveteri

ha frequentato il liceo classico "platone"di roma

dove ha scoperto attraverso gli insegnamenti del prof. casoli, la sua vena poetica.

si ispira alla metrica ed alla introspezione poetica di

artisti come alda merini e arthur rimbaud

la ospitiamo volentieri nel nostro spazio perche' i suoi

lavori sono degni di una lettura approfondita.

l'artista vuole ringraziare  la dott.ssa sala volti

per il suo  supporto terapeutico.

 

 

PIOVE

piove, amore mio,

e queste gocce

ricordano un po' lo sguardo dei tuoi occhi belli,

piove, amore mio,

e questa pioggia sembra quasi la mia vita

che cade giu' sulle mie spalle e mi ricorda di essere nata

piove, amore mio,

e quest'acqua stanca,

che rinfresca

e' un po' come la terra

che la copre

e la riscalda,

piove, amore mio,

e questo e' un po' come le cose

 

 

NON TROVERAI PIU' ME

non troverai piu' me

negli anfratti di boschi solitari di silenzi

non troverai piu' me,

che cerco assetata,

il tuo cuore

da mordere e da cui bere il veleno

che mi rende piu' forte la vita

come mida,

re dei mille sogni e dei mille incubi...

tu,

io,
  

saremo solo carne di un unico corpo,

un' unica entita' ermafrodita,

da cui attingere e a cui dare vita

respiro,

amore,

dolore e tutto

quello che resta di me

 

COSA C'E') DI NUOVO
 

 

c'e' sempre un rumore di frullino rotante

in ogni dove,

vicino ogni casa,
  

vicino ogni portone.

 

non so se esiste veramente o e' solo un rumore della testa,

vibrante gesto di amicizia verso il mondo,

contatto profondo di un'era mai vista....

COS'È QUESTO RUMORE,
  

questo attrezzo che rotea nelle mani di un fabbro scopritore

e' un gesto, un suono, un labbro chiuso e aperto nello stesso momento,

e' sollievo e tenerezza,

e' il mondo che cammina....

e che interagisce con tutto il resto....

e' la vita,

che corre verso il suo destino e non e' finita,

anche se smette un attimo di vibrare, non e' sola,

ronza appena di continuo,

e non è un animale,

e' acqua che scorre,

e' vita inoltrata negli antri degli occhi

guidatori di mani, esperte ed infallibili,

come i mattoni di una casa,

costruita, ordinata, dalle stesse mani e dalla stessa vita...

una e pure tante, una e trina,
  

 verso il suo destino e non e' finita,

anche se smette un attimo di vibrare, non è solam

ronza appena di continuo,

e non è un animale, e' acqua che scorre,

e' vita inoltrata negli antri degli occhi guidatori di mani, esperte e infaticabili, come i mattoni di una casa,

costruita , ordinata, dalle stesse mani e dalla stessa vita...

una eppure tante, una e trina, una e molteplice

 

in noi come negli animali, nelle pietre nei sassi

che ci lanciamo, perdonandoci, negli abbracci che ci lanciamo, scusandoci...

e abbracciandoci di nuovo...

e' una pacca sulla spalla, sono nuove emozioni, e' il tiro di un pallone,

e' la bimba che sorride, di malizia sconosciuta, è l'acqua, la fonte, la vita....

tu sei tutto questo, e di più e di meno, (e molto di più e molto di meno)...

e molte stelle devono ancora colpire il mondo e cadere nelle valli,

senza fare male a nessuno, ma colpendo dritto al cuore, alla testa del mondo

 

per farci cambiare,

per tornare ad essere vivi,

per farci di nuovo sognare....

 

 

 



 

 


LA CULTURA SCONFIGGE LA VIOLENZA

In occasione della Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne, il Centro d’Arte e Cultura di Ladispoli oggi domenica 27 novembre 2022 ha presentato uno spettacolo-concerto con la volontà e la certezza che la Cultura sconfigge la Violenza.

Il sestetto ESM si è inframezzato con brani tratti dal lavoro lirico ed allo stesso tempo tragico dal titolo “La sposa bambina” di Laura Masielli, letti dagli attori Laura Laurini e Lorenzo Cosimi.

Si è iniziato con Fantasie per flauto in La minore di G.P. Telemann per le splendide sonorità di Anna Marchetti, una giovanissima flautista nelle cui mani lo strumento assume tonalità magiche. E’ strano che non l’abbiano seguita una sequenza di topolini come nella favola.

A seguire le dita volanti di Alessia Volo nel Preludio dalla Suite Bergamasque di Claude Debussy. La delicatezza dell’interprete si è uguagliata nei pieno musicali del brano con momenti strabilianti da rasentare l’estasi nel totale godimento dell’ascoltatore.

Dopo un brano in lettura dei due attori che hanno interpretato la difficile parte con grande bravura, cambi di tonalità vocale, pianissimi e fortissimi regalando ai presenti tutta l’emozione di cui quel testo trasuda.

Ha continuato una splendida Milena Del Bene nella complessa toccata di A.Katchaturian piena di trilli, vibrati e grandi bassi. 

Alla fine del bellissimo solo la pianista è stata applaudita come se si fosse stati allo stadio.

Ancora uno dei due attori a leggere un brano tra i più sensibili di tutta l’opera, riuscendo a trasmettere la sua gigantesca difficoltà di padre ligio ai dettami della sua religione con la realtà che vede, cosa che lo fa traballare in quella fede molto più di facciata che di sostanza.

Si è aggiunta poi Giorgia Violi nella Sonata n°9 in mi maggiore – I° tempo Allegro del sommo L.v.Beethoven.

Fantastica in tutta l’esecuzione tanto che ha avuto applausi da spellarsi le mani.

Ancora i due attori nel pre-finale del lavoro “La sposa bambina”. Si sono veramente spesi nella enorme difficoltà di impersonificarsi nei panni della mamma e del padre della bimba che sarebbe dovuta andare in sposa ad un uomo molto ma molto più grande di lei.

Il concerto si è concluso con un brano a quattro mani di Giorgia Violi ed Elena Mannoni per la Suite Dolly ed Il passo spagnolo entrambi di G.Faurè. Un’esecuzione strepitosa con applausi a non finire.

Per ultimo abbiamo avuto l’onore di ascoltare Anna Marchetti e Sasha Ciancaleoni al flauto nel duo in mi minore op. 10 n° 1 di F. Kulahu.

Le ragazze e gli attori sono stati applauditi da un numero di ascoltatori abbastanza numeroso tanto da trovare qualche difficoltà nel farli sedere e nello spazio da utilizzare.

Veramente questa volta la Cultura, quella con la maiuscola, può sconfiggere l’ignominia della ineffabile violenza.


Un sentito ringraziamento a coloro che si sono adoperati per la riuscita di questo evento, alle sei ragazze strepitosamente brave, ai due attori e soprattutto all’organizzatrice della manifestazione Laura Masielli.

F.B.

IL DISATRO DEL MOBY PRINCE

La prima volta che sono andato in Corsica, nel 1974, sono partito da Livorno con la Corsica Ferries. Sono tornato in Corsica per tanti anni a seguire utilizzando anche i traghetti della Navarma ed anche quelli della Corse Mediterranee, d’estate, in primavera ed in autunno.

Conosco quindi il braccio di mare che viene percorso dai traghetti una volta usciti dal porto.

Per quanto riguarda il Moby Prince, ho usufruito dei suoi servizi più volte, servizi di classe sull’ammiraglia della società.

Sono rimasto esterrefatto quando ho saputo della tragedia.

Ricordo che all’epoca, nella ricostruzione dei fatti si disse che quella tratta, Livorno-Olbia, doveva essere percorsa da un altro traghetto che era in darsena in panne e la Capitaneria di Porto aveva diramato un messaggio di annullamento della corsa, elemento emerso in altri documentari.

Quella sera il Moby era appena tornato da Bastia e chiesero al capitano se avrebbe potuto sostituire quello in avaria. 

Nessuno ha fatto sapere se la Capitaneria di Porto abbia oppure no modificato il precedente messaggio.

Fatto sta che l’impatto si è avuto a circa un miglio e mezzo, due miglia dall’uscita dal porto.

Domanda senza risposta: cosa faceva l’Agip Petroli nel ben mezzo della rotta dei traghetti per la Sardegna e per la Corsica?

Premetto che le petroliere stanno alla fonda un bel po’ spostate sulla destra e lontane rispetto al punto d’impatto.

Si sono dette un sacco di cose false, improbabili, menzognere come l’equipaggio del Moby intento a vedere la partita di calcio; la nebbia sul posto mai vista da nessuno; un guasto ai timoni ecc. ecc.

Sicuramente esistono tracciati radar presi dal vicino Camp Darby, base americana in Italia, ma non si sono mai visti. Inoltre, una petroliera carica di greggio al radar appare come due puntini distanti l’uno dall’altro, come fossero due natanti separati. E’ probabile che il Moby abbia usato le sirene ma che poi, accortosi della petroliera, abbia dato ordine di tutta barra a dritta (destra) e motori indietro tutta.

Una nave lanciata a velocità di crociera, non è un’automobile e non gira né frena in breve spazio.


Forse, sperando di evitare l’impatto, senza riuscirvi, dopo aver speronato l’Agip, automaticamente il Moby è tornato indietro, scatenando un inferno di scintille che hanno dato fuoco al traghetto i cui interni erano pieni di sedili e divani in plastica.

Credo fermamente che le mancate risposte alla vicenda, siano dovute al semplice ragionamento che vede la Navarma, una piccola società privata contro un gigante statale: l’ENI.

Non si può in alcun modo far sapere ufficialmente che una petroliera del gruppo stava pulendo le stive nel buio più totale, sicura che quella notte nessun traghetto avrebbe percorso quella rotta.

M.B.

8 MARZO

Giallo ramo di mimosa

inerme e profumato.

Quel legno gronda sangue

Dal futuro e nel passato.


23 febbraio 2018

Maurizio Bonardo

Un Cantautore che si distingueva tra i Cantautori degli anni ‘70


Bella retrospettiva trasmessa oggi, 26 giugno 2022, da RAI 3, realizzata con il materiale in loro possesso delle Teche RAI.

Battisti iniziò la sua carriera alla fine del 1962 esordendo con la band “I Mattatori”, passando successivamente con “I Satiri” nel club romano Cabala nel quale si esibiva anche la band “I Campioni”.

Questi ultimi erano nati con il roboante nome “Rocky Mountains Ol’ Time Stompers” e alla chitarra suonava Bruno De Filippi che fece parte del Sestetto Azzurro di Alberto Semprini che accompagnò Domenico Modugno nella sua ‘Nel blu dipinto di blu’. La band mutò di nome in “I Campioni”, accompagnando la voce di Tony Dallara, l'urlatore per antonomasia.

All’uscita di Dallara dal gruppo, la voce solista e leader divenne Roby Matano e nel 1962, quando De Filippi abbandonò la band, quel ruolo passò a Lucio Battisti.

L’incontro con il paroliere Giulio Rapetti in arte Mogol portò Battisti al successo incredibile che ebbe meritatamente.


La rivoluzione da lui iniziata fu analoga a quella che fece anni prima Renato Carosone, sdoganando riti americani in voga allora, come il Rock and Roll, italianizzandoli.

Battisti fece conoscere a quell’Italia musicalmente un po’ arroccata su sé stessa, il Rhythm and Blues prettamente americano.

Paradossalmente la sua ‘Un’avventura’, vero Rhytm and Blues,  che presentò a Sanremo in coppia con Wilson Pickett, non ebbe il riscontro sperato.

Infatti l’Italia non era preparata per questo genere molto ritmico.

Tuttavia Battisti lo ha proposto in tutta la sua opera nel lungo periodo insieme a Mogol.

Il suo repertorio è pieno di vere e proprie chicche musicali, da ‘Il mio canto libero’ a ‘Non è Francesca’; da ’29 settembre’ affidata all’Equipe 84 di Maurizio Vandelli a ‘Il Paradiso’ affidata a Patty Pravo.

L’elenco è molto lungo e sono brani curatissimi nell’arrangiamento con musica e parole che ancora oggi vengono riproposte ad ogni occasione.

Un particolare brano che fece molto scalpore fu quel ‘Pensieri e parole’ presentato nella trasmissione TV ‘Teatro 10’ del 1971.

E’ un intreccio tra due diverse melodie cantate prima separatamente l’una dall’altra, poi riunite a fondersi nella seconda strofa.

Tutto questo dà l’immagine di un compositore geniale che per tanti anni ha unito la sua capacità di innovatore con l’altrettanta capacità geniale del suo paroliere Mogol.

Maurizio Bonardo


De Praenomen, Nomen et Cognomen

Dallo scorso febbraio si sta discutendo al Senato sulla proposta di legge riguardante la possibilità di scegliere

come cognome per i propri figli oltre a quello paterno fino ad oggi in uso, anche quello materno, per stabilire che

il ruolo della donna madre è importante quanto quello del padre, cosa buona e giusta.

La storia dei cognomi risale all’alba dell’umanità e durante il Medio Evo, si ebbe la necessità di conoscere il

numero degli abitanti di un comune. Quindi si crearono gli elenchi basati sui dati identificativi delle persone, per

registrare i nuovi nati ed anche per avere nozione degli scomparsi. L’anagrafe iniziò allora.

In quell’epoca solo i nobili, il clero ed i ceti più abbienti possedevano un cognome mentre tutti gli altri cittadini

venivano riconosciuti per un soprannome oppure con un cognome riguardante il mestiere esercitato od anche

dal luogo di provenienza.

Oggi, che è tutto meccanizzato, si possono consultare gli elenchi nelle anagrafi cittadine. Tra le ultime leggi

attorno al diritto di famiglia, al momento del matrimonio, la moglie può aggiungere il proprio cognome a quello del

legale consorte.

L’ipotesi di scegliere il cognome dei propri figli, se portato all’estremo, diventa un paradosso: Mario Rossi sposa

Gianna Bianchi ed hanno due figli, Romolo Rossi e Remolo Bianchi. I due figli a loro volta hanno due figli, quindi

da Romolo Bianchi nascono Antonio Verdi e Mara Gialli e da Romolo Bianchi nascono Linda Neri e Vittorio

Rosa.

Nella stessa famiglia così ci sarebbero ben 6 cognomi diversi: Rossi, Bianchi, Verdi, Gialli, Neri e Rosa.

Proprio una bella ‘carbonara’ realizzata con le uova in polvere, il bacon, la panna ed il gruyer rapè.


Ti amerò fino alla morte

A Padova un cinquantenne accoltella la convivente dopo essere stato condannato a 12 anni

di reclusione per femminicidio. Aveva ucciso la moglie a coltellate. La pena gli era stata

dimezzata per buona condotta ed inoltre aveva avuto altri anni di pena per stalking nei

confronti della psicologa che lo aveva avuto in cura.

Dal punto di vista legale, sarà compito della Magistratura fare luce sugli accadimenti e,

fortunatamente la signora accoltellata per ultima, è fuori pericolo di vita.

Il reato di femminicidio, da poco entrato a far parte del codice penale, è un di quegli atti

obbrobriosi per i quali non ci sono attenuanti.

Si tratta di omicidi perpetrati per “futili motivi”, dopo una lite oppure solamente per un

perverso senso di possesso relativamente al confronto impari con mentalità, usi, pensieri,

atteggiamenti, modi di essere diversi dai propri. E’ il concetto di proprietà che si deve

applicare per le cose e non certo per le persone ma, in alcuni soggetti dalla debole

personalità, il confine è molto labile.

Un aforisma ricorda che un uomo si lamenta perché la compagna lo vorrebbe lasciare. Lui

l’uccide, comunque lei lo ha lasciato ugualmente.

Il terribile fenomeno è stato studiato e approfondito dagli studiosi guardandolo da ogni

punto di vista.

Uno degli aspetti più significativi riguarda quella sensazione di superiorità arrogata

dall’uomo nei confronti della compagna e dei figli che si manifesta con l’errato senso di

potere dato dalla paternità.

All’estremo, il sesso maschile utilizzato come un’arma da fuoco.

Maurizio Bonardo

Papa Francesco on the Road... quando le strade portano a Mosca

“Ecco qua, così va bene!” pronunciò ad alta voce mentre davanti allo enorme specchio stile

ottocento, terminava di riassettarsi lo zucchetto bianco che si era spostato nel gesto concitato e

maldestro scaturito dall’inaspettato improvviso brutto pensiero.

Il bianco del copricapo non stonava anzi quasi spariva sui capelli candidi.

La figura bianca era in piedi vicino ad una delle finestre della biblioteca privata, con la schiena

incurvata in avanti e le mani cinte dietro la schiena in una postura meditabonda.

Malgrado la mente stesse vagando altrove, lo sguardo del vecchio era perso nella moltitudine di

turisti e fedeli che affluivano al Vaticano, dato che il Palazzo Apostolico si trovava proprio nel

complesso che sovrastava piazza San Pietro.

La stanza era ampia e luminosa, situata al terzo ed ultimo piano dell’edificio che di privato aveva

soltanto il nome.

Un raggio di sole illuminò per un attimo quel volto anziano e sofferente.

Quel viso era uno dei volti più mediatici del pianeta, venerato da milioni e milioni di esseri umani e

rispettato da altri, era sempre sorridente e accogliente, sia che fosse seguito in televisione sia nelle

affollate udienze private, tanto da ricordare la stessa accoglienza che t’aspetti da una persona a te

cara e comunque ti sembrava naturale attendere la frase: << Finalmente sei arrivato, ti aspettavo

con impazienza >> pronunciata più dalla devozione che dalle corde vocali.

Adesso il viso era sofferente, vuoi per i fastidi dell’età, comunque sempre attesi, ma ancor di più

per i venti di guerra che si erano ripresentati improvvisamente in Europa, forieri di violenze,

atrocità, abbandoni e distruzioni, eppure, anche nella angoscia quel volto emanava una luce che

intimidiva.

Lasciata la finestra il Capo della Chiesa, ritornò alla scrivania, si sedette e guardò fisso il Segretario

di Stato, amico e confidente: “devo proprio andare a Mosca!”.

D’un tratto, il Papa cominciò a respirare con difficoltà, portandosi una mano sulle costole e

traspirando sulla fronte per lo sforzo.

“Che avete vostra Santità?” si preoccupò il Segretario di Stato, unica altra presenza umana nella

stanza “State bene?”, chiese premuroso all’amico avvicinandosi.

Il Papa si appoggiò allo schienale con affanno, ed accarezzando ossessivamente la grande croce di

ferro che portava sul petto, fissò il suo interlocutore per alcuni istanti, ponderando il modo

migliore per rispondere a quella domanda.

“Si, proprio così devo andare e parlare con lo zar.”

La cordialità e la socievolezza che aveva mostrato all’inizio erano del tutto scomparse, sostituite da

rughe di preoccupazione sulla fronte.

Compiendo uno sforzo enorme per mantenere un atteggiamento pacato, il capo della Chiesa

scattò improvvisamente in piedi e, sentendosi male, si precipitò alla finestra più vicina.

Sembrava in preda ad un attacco di panico.

Aprii la vetrata, si chinò in avanti e ispirò a fondo, riempiendosi i polmoni di aria fresca.

Quel gesto parve dare i suoi frutti, tanto che pochi istanti dopo, quando tornò alla scrivania diede

l’impressione di essere più sereno e composto, addirittura rinvigorito.

“Certo devo andare a Mosca ad incontrarmi con Putin, ma non voglio incontrare Keryl, quel

“benedicente-eserciti” troppo vicino al potere, quasi sagrestano.”

Non andò oltre nel giudizio avendo ben presente però quel rapporto riservatissimo arrivato sulla

sua scrivania relativo al potente ecclesiastico ortodosso.”

Poi ancor più pacatamente continuò ad alta voce.

“le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie

preoccupazioni. Negli ultimi anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi.

Ho voluto raccogliere molti di tali interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione. Il

mio fratello Bartolomeo, il Patriarca ortodosso, che ha proposto con molta forza la cura del creato

inoltre a riguardo mi sono sentito stimolato dal Grande Iman Ahmad Al-Tayyeb, con il quale mi

sono incontrato ad Abu Dhabi per ricordare che Dio “ha creato tutti gli esseri umani uguali nei

diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro.” E qui

scandendo bene le parole, il Papa aggiunse “Non si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di

una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto su temi esposti in un documento

che abbiamo firmato insieme.”

La pausa silenziosa si prolungò un po’ prima delle ultime parole “Ed è per questo che devo andare

IO e non le armi!”

Fabiana  e il prato

Cera una volta, non si sa quando né dove né tantomeno perché ma la realtà imponeva un fatto: c’era! 

Si tratta di una bimba, una di quelle che più bella non si può, vispa, intelligente, soprattutto curiosa. Era interessata a molti argomenti che riteneva importanti per la sua vita. Era snella, un po’ più alta della sua età, età che non si sapeva bene ma la si dava per scontata. Infatti era una bimba. L’ovale perfetto incorniciato da splendidi capelli di un rosso Tiziano; i suoi occhi erano di un colore verde smeraldo, più brillanti di quella preziosa pietra. Insomma era proprio una bellissima bimba. 

Da qualche tempo aveva scoperto la magia della musica e, anche non sapendo ancora leggere, si era immediatamente trovata bene con quegli strani segni che punteggiano il pentagramma. 

La natura l’aveva dotata di quello che si chiama ‘orecchio assoluto’ ovvero la capacità di riprodurre una melodia appena ascoltata in tutti i suoi più piccoli risvolti, sia canticchiandola sia riproducendola su di un semplice flauto dolce oppure sui tasti di un pianoforte, senza aver mai studiato musica. Aveva molte passioni ed ancora non aveva scelto cosa avrebbe fatto da grande. Un giorno voleva essere una ballerina classica innamorata del costume con il tutù e le scarpette con le punte rinforzate; un altro, dopo aver visto in TV un’artista che le era piaciuta molto, avrebbe voluto diventare una cantante; un altro ancora, avrebbe voluto essere una strumentista di valore; tutti desideri che avevano a che fare con la musica. 

Un bel giorno, dopo aver giocato per molto tempo con i suoi coetanei nel giardino di casa, era stata chiamata dalla mamma per il classico bagnetto e poi per la cena. Dopo aver cenato, si era messa a guardare la TV che stava trasmettendo un varietà musicale e dopo qualche minuto nel quale i suo interesse l’aveva portata a rilassarsi, si addormentò profondamente. 

La mamma la prese in braccio e la portò a letto. Senza alcun capriccio indossò il pigiamino e si coricò sotto le coperte. 

Nel sonno iniziò uno splendido sogno che le sembrò di vivere realmente. 

Lei si trovava tra le righe di un pentagramma saltando da una nota all’altra ma il suono che ne sortiva non era di suo gradimento. 

Il rigo del pentagramma era molto elastico, come una sorta di trampolino o meglio di quei materassi gonfiati dove si rimbalza ad ogni movimento. 

Si fermò un attimo aggrappata al rigo più alto testando questa o quella nota più alta o più bassa. Il suo orecchio assoluto le permise di riprodurre una melodia a lei nota, saltando di qua e di là. 

Non era soddisfatta ancora ed aggiunse a quella semplice melodia altre note, come se tentasse di svolgere una specie di arrangiamento. 

La bimba che si chiamava Fabiana, saltando tra un rigo e l’altro, si trovò al di fuori del pentagramma, vedendolo su di un grande schermo apparso improvvisamente dinanzi a lei; inoltre si trovò seduta dinanzi ad un grande pianoforte a coda nel bel mezzo di una grande orchestra guidata da un elegantissimo direttore: suo padre! 

Questi mutamenti di immagine appartengono alla magia dei sogni e lei li stava vivendo come fosse la realtà. 

Suonava quel piano come avrebbe fatto Arturo Benedetti Michelangeli e dopo l’intervento dei timpani si lanciò in un ‘ad libitum’ di grandissimo valore. La sala esplose con un applauso di lunga durata. 

Lei era raggiante per la felicità di essere stata capace di trasmettere tutte le emozioni che provava suonando nel migliore dei modi possibili. 

Il concerto riprese e lei iniziò ad utilizzare degli intervalli sonori inusuali e complessi, pieni di dissonanze proprie più della Musica Jazz che della classica-sinfonica. Tutto era perfetto incastonato in una splendida cornice impreziosita da molti simboli usati n Musica. 

Tornò in camerino a cambiarsi e lo trovò pieno di splendidi mazzi di rose donatele dai suoi estimatori. 

Pensava e ripensava alla sua esecuzione non essendo del tutto soddisfatta di come qualche passaggio complicato l’aveva dovuto rimodellare per renderlo più comprensibile all’auditorio, riproponendosi di migliorarsi per proporre il meglio di sé in un prossimo concerto. 

Improvvisamente tutto era cambiato in quel meraviglioso sogno e si trovò alla guida di un piccolo ‘combo’ in un luogo del tutto diverso, con compagni diversi dai primi: lei al piano, un sassofonista tenore, un bassista ed un batterista, il tutto all’interno di una piccola ‘cave’. 

Sul fruscio delle spazzole accarezzanti la superficie del ‘rullante’, lei si vegliò. Dovette alzarsi dal letto per un normalissimo bisogno fisiologico e tornò di nuovo nel tepore delle lenzuola sormontate da una gioiosa coperta coloratissima raffigurante animali in un bosco. 

Si riaddormentò subito ritornando come se nulla fosse accaduto in quel sogno che le aveva dato tante soddisfazioni. 

Può sembrare irreale ma i sogni sono irreali e ti proiettano in mondi fantastici nei quali è possibile tutto ed il suo esatto contrario. 

Questa volta il quadro era completamente diverso e lei si trovava a giocare con la sua cagnetta in un soffice prato pieno di fiori colorati e molti alberi verdissimi risultavano essere la cornice di questo bucolico riquadro. 

Infatti, dallo stormire delle ronde accarezzate da una carezzevole brezza al canto dei grilli ed al cinguettio degli uccellini che andavano e tornavano dai nidi da loro costruiti sui rami degli alberi, dal leggero movimento dei fili d’erba al brulichio della vita all’interno del prato, ci si trovava come Gulliver tra i Lillipuziani quale elemento preponderante del grande disegno armonico della Natura. 

Fabiana era una bambina di grande intelligenza e, vedendo qua e là qualche pezzo di carta volare tra i fiori oppure qualche mozzicone di sigaretta abbandonato in terra insieme a qualche altro rifiuto più o meno in bella mostra, capì che le note stonate erano frutto dell’incoscienza, della presunta superiorità e dell’ignoranza della specie a cui lei stessa apparteneva: l’essere umano.


Maurizio Bonardo

 


LA FORZA DEI RICORDI

Ho iniziato le elementari nel 1955, il 15 settembre, in una piccola scuola, rimediata in una casetta, che stava dentro una frazione, lontana 7 chilometri da Poggibonsi, che si chiama Ormanni: piccolo resto di un agglomerato di povere case rurali addossate intorno alla villa padronale, in mezzo alle campagne collinose del Chianti. 

Era una piccola scuola dedicata al maggiore Toselli eroe di guerra, ed era veramente minuscola tant’è  che ho ancora il ricordo di una unica piccola aula, dove i pochi alunni erano così sistemati:  i 2 più grandi della quinta, in fondo accanto alla parete, dove in un angolo, prendeva posto anche  l’enorme stufa con accanto ben accatastata la scorta di ciocchi di legna, l’unico di quarta e i  3 di terza, sedevano, con un banco di separazione, più avanzati nella fila successiva infine la bimbina della seconda aveva il banchino quasi accanto alla porta e poi c’ero io, lato finestra di cui ricordo non la vista  che si godeva ma solo  i quattro piccoli vetri sempre opachi di vapore.

Ancora non ero in età scolastica, frequentavo impunemente le lezioni.  

l’impegno solenne, preso dal babbo con la docente, di propormi a fine anno scolastico agli esami finali per il passaggio alla seconda classe, aveva convinto e spronato la signorina maestra Silvana ad aggiungermi ai suoi pochi discenti, finalizzando così lo scopo, raggiunto, sia di convincermi sulla grande considerazione che il genitore-padre aveva  del primogenito che  togliermi dall’invadenza, puerilmente vivace, del non far niente,  e cosi salvare  la mamma che doveva accudire anche alle  tre sorelline.

Il babbo era un enologo e gli era stata offerta la responsabilità dell’intera cantina vinicola, quindi, aveva deciso di avere l’intera famiglia accanto, sul posto di lavoro, e dal centro di Firenze ci eravamo trasferiti nel Chianti.

A Firenze frequentavo l’asilo, e lì avevo imparato, con la pazienza delle maestre, tante cose: già riuscivo a riconoscere le lettere dell’alfabeto, e mi lasciavano destreggiare con l’abaco, per cui l’impatto con la scuola non mi creò traumi. 

Ho avuto una maestra sola, e sempre la stessa, per quattro anni. Era di mezz’età, ci faceva tutte le materie, e ci raccontava anche la Bibbia. Non mi sembra che fossi particolarmente bravo a scuola. Studiavo, prendevo bei voti. Ma niente di che. Per esempio, non sapevo disegnare, e nemmeno fare i pensierini e i temi. Non mi veniva mai niente da scrivere. Mi aiutava mia madre. Lei cuciva, in tinello, e io mi mettevo al tavolo, nella metà libera dalle sue stoffe, a fare i compiti. Quando avevo bisogno le chiedevo aiuto e lei, continuando a cucire, mi suggeriva qualche spunto, e a volte mi faceva i disegni. Non sapeva disegnare nemmeno lei, ma ci provava. Ricordo che mi fece un passerotto tutto arruffato, che a me non veniva. E a proposito dei temi, una volta mi suggerì di descrivere come si fa un minestrone solo con un sasso aggiungendo man mano saporiti ingredienti, dalla carne alle carote, al dado Liebig, solo rispondendo alla domanda: “ forse verrebbe più buono se ci metto anche un po’ di…”

Ho avuto, anche, le stesse compagne e gli stessi compagni per tutti e cinque gli anni. Direi che le elementari furono per me un piccolo universo molto stabile e compatto. Non sapevo a che ceto sociale appartenessero, le mie compagnie. Non si capiva. O meglio, non era una categoria che abitasse nei nostri cervelli: nessuno di noi ce l’aveva chiara. Di una compagna che prendeva voti alti non credo di essermi mai chiesto a che famiglia appartenesse, che mestiere facessero i suoi genitori. Non mi veniva neanche in mente. Se uno andava molto bene a scuola, pensavo di lui che era bravo, o che studiava tanto, o tutt’e due le cose. Di una che invece andava male e prendeva tutte insufficienze, pensavo che non avesse voglia di far niente, forse non era nemmeno tanto capace, e di sicuro le piaceva fare altre cose, diverse da studiare.

Ero piccolo e sprovveduto. Facevo ragionamenti ingenui, molto semplici. C’era però un particolare. Portavamo tutti il grembiulino con il fiocco blu, eppure qualche differenza io riuscivo a notarla: c’era chi lo portava ben stirato, con la stoffa quasi lucida, e chi lo aveva con le pieghe stazzonate e il colletto storto; c’era chi lo aveva d’un bianco quasi abbagliante e chi invece di quel bianco giallino stanco, che sembrava sempre sporco; e soprattutto il fiocco, c’era chi lo aveva bello gonfio, e chi un farfallino striminzito e stinto. Quelle erano le differenze che “vedevo”. Non ricordo che i voti, alti o bassi, dipendessero dalla forma e dal colore del fiocco. Non sono in grado di dire se chi era di famiglia bene andava meglio a scuola e chi era di ceto basso non riusciva negli studi. Poteva essere, ma anche non essere. E comunque non si vedeva in modo così chiaro e indiscutibile. Se però adesso mi sforzo, riesco a farmi venire qualche pallido sprazzo di memoria. Per esempio, ricordo che la prima della classe, quella che prendeva tutti 10, era figlia del fattore. E la madre della seconda della classe, che aveva la media del 9, faceva le pulizie. Ma c’era una bambina, con i denti mangiati dalle carie e con i capelli perennemente unti, che andava male a scuola e, sì, doveva essere povera, perché ricordo che le davano i quaderni dell’UDI; e lei non imparava a scrivere, e sul quaderno faceva le macchie d’inchiostro. E il suo grembiule era giallino. In compenso c’erano i due figli del dottore, una bambina bionda dolcissima e un bambino bruno un po’ grassoccio, entrambi con il grembiulino inamidato, che arrivavano a malapena alla media del 7, non di più, ma avevano sempre bei giocattoli in regalo per Natale.

Avevamo tutti noi maschi i pantaloncini corti estate e inverno, sole o neve, al massimo i calzettoni lunghi di lana fino al ginocchio scoperto quando era freddo freddo, comunque avevamo tutti il cappotto sopra al grembiule, sempre un po’ più stretto. 

La vera svolta è stata la scuola media.

Per la prima volta mi sembrava di andare a scuola, cioè capivo cosa voleva dire. È la scuola che ha contato di più. A volte penso che quei tre anni siano l’unica scuola che ho fatto. Tutto il resto è stata solo un’aggiunta, che si perde nella nebbia. La scuola media ha contato per tante ragioni, molte delle quali segrete o imperscrutabili, una invece piuttosto chiara: lì ho imparato una quantità impressionante di cose. In effetti, avendo ritrovato ultimamente i programmi che portavamo all’esame di terza (pagine e pagine di fogli protocollo scritti a mano), posso dire che i nostri insegnanti svolgevano programmi giganteschi. Forse è per questo che tutti noi siamo usciti con quella che oggi chiameremmo una buona “preparazione di base”, nonché con numerose “competenze”, tipo articolare un discorso orale, fare i temi, tradurre... Siccome non eravamo una generazione di persone geniali o in vario modo straordinarie, bisognerebbe capire perché uscivamo così ben preparati, dalla scuola media.

La mia scuola media era giù in città a Poggibonsi. Un austero palazzo a due piani, intitolato a Francesco Costantino Marmocchi, esimio professore del passato, geologo e patriota, costruito all’inizio di un viale silenzioso proprio accanto ad un piccolo parco silenzioso con i viottoli pieni di ghiaia bianca che ci ospitava prima dell’inizio e alla fine delle lezioni.

Al mattino la macchina del comune, lunga e nera con in mezzo ai sedili gli strapuntini, passava a prenderci, faceva il giro dei casolari intorno, raccattava gli altri quattro/cinque studenti, e ci lasciava, arrivati in città, nel piccolo parco accanto a scuola da dove ci riprendeva nel pomeriggio per riportarci a casa.

Qualcosa nell’aria si muoveva socialmente, erano i giorni dei primi scioperi, il malcontento usciva fuori anche dai discorsi dei grandi, mentre passavamo davanti alla sfilata delle case popolari. Le chiamavano così. Caseggiati tutti uguali, dai muri vecchi, con portoni di legno che si aprivano su cortili sconnessi.

Naturalmente non me ne sono accorto. Troppo piccolo. E poi ero impegnato a studiare, perché questo eravamo tenuti a fare: studiare. Si passava l’intero pomeriggio sui libri. Non ricordo perché studiassimo. Ma ricordo che lo facevamo tutti, chi più chi meno, chi con risultati buoni e chi no. Chi studiava poco, prendeva brutti voti e alla fine veniva bocciato. Forse studiavamo perché ci sembrava normale, e non c’era bisogno che un adulto, insegnante o genitore, ci spronasse ogni giorno a farlo, ci spiegasse il perché e ci motivasse. Credo che pensassimo che andare a scuola equivaleva a studiare. Era proprio un’equazione perfetta, con tanto di segno uguale. Se no, cosa andavamo a scuola a fare? Forse studiavamo per una ragione ancora più semplice: se non studiavamo non passavamo l’anno e i genitori ci dicevano che ci avrebbero mandati a lavorare.

Ho proprio questo ricordo molto semplice e scontato: che chi non studiava prendeva voti orribili senza pietà, e alla fine veniva bocciato. Al termine della prima media, la mia classe per esempio si era dimezzata. Solo per metà eravamo stati promossi. Quindi in seconda dovettero accorparci a un’altra classe. Cambiai sezione e tutti i professori.

 Ho detto che gli insegnanti davano brutti voti “senza pietà”. Sì, la pietà non era un sentimento contemplato, tra i docenti. Tantomeno richiesto, o apprezzato. Andava molto di più fare il proprio dovere, che era di far bene lezione e dare i voti giusti: alti a chi studiava, bassi a chi non studiava. Era una scuola semplice. Se vogliamo, anche molto ovvia. Il senso del dovere dei docenti però funzionava: induceva noi studenti allo stesso senso del dovere. Per cui, se avevamo insegnanti che esigevano da noi lo studio, noi studiavamo. Chiarisco il verbo esigere. Non si limitavano a dirci di studiare, lo esigevano. Voleva dire che erano drastici, perentori e soprattutto adottavano un comportamento conseguente: se io ti dico di studiare e tu non lo fai, io ti do brutti voti. Non ti permetto di non studiare. Ti chiedo di arrivare a sapere certe cose. A saper scrivere, per esempio. Io mi impegnerò a insegnartelo al meglio. Ma fino a che non lo saprai fare, io ti darò brutti voti. Questo generava in noi, ovviamente, anche un certo terrore. C’erano insegnanti più di altri capaci di generare terrore. Per esempio la nostra prof di francese, la mitica Parretta. Una donna anziana, molto truccata, con un meraviglioso caschetto di capelli tinti di biondo, direi di un giallo acceso, allegro. Entrava in classe e subito ci battevano i denti dalla paura e un brivido ci percorreva la schiena. Se voleva, faceva dettato, decidendolo al momento, senza preavviso. O compito di verbi. Studiammo per due anni a memoria i verbi francesi. Lei pretendeva che li sapessimo cantando. Pretendeva, ecco, ho trovato il verbo giusto: i nostri insegnanti pretendevano da noi. E non mollavano la presa finché non avevano ottenuto quel che avevano preteso.   E che, fin dall’anno dopo, in quarta ginnasio, ero in grado di leggere Camus, Gide, Verlaine, Rimbaud e Proust. Nonché, ovviamente, di fare una gita in Francia. Resta il fatto che, in prima media, metà della mia classe è stata bocciata. Mi sembra un punto cruciale, su cui non sorvolare. Era dunque, in effetti, una scuola selettiva. Non so se di classe (anche qui, non sono in grado di dire a che ceto appartenessero le mie compagnie bocciate), ma selettiva certamente sì. Era uscito proprio in quell’anno – lo apprenderò molto tempo dopo – il libro di don Milani (Lettera a una professoressa è del 1967), in cui si sosteneva che la scuola media era troppo selettiva, e doveva smettere di bocciare: la bocciatura era un’arma delle classi alte contro quelle basse. Era proprio così? C’entravano così tanto le classi sociali? E fino a che punto? Visto che è esattamente la scuola che ho frequentato io in quegli anni, perché i miei ricordi sono così dissonanti, o perlomeno confusi?

Completate le medie quindi, si aprivano le porte del ginnasio, biennio propedeutico al liceo, classe di studi ubicata un po’ più in fondo al viale, in un edificio di due piani di recente costruzione ma con lo stesso stile ed architettura monacale dei palazzi vicini da cui aveva copiato, certamente accentuandola, sia l’austerità che la severità, sentimenti che ben si addicevano ad un ciclo di studi superiore.

Avevamo capito noi studenti, non subito ma dopo qualche frequentazione, che tutta la durezza dell’edificio si stemperava un po’ guardando dagli ampi finestroni posti sul retro da dove insieme al silenzioso cimitero sulla collina, il fitto bosco verde scuro ma ben curato, si intravvedevano i binari su cui passava la littorina che andava a Colle Val d’Elsa e il ponte sul torrente Staggia che, avevamo imparato alle medie, si immette nell’Ombrone, il quale è un affluente dell’Arno, proprio quell’Arno che un palmo sotto Livorno, così come si può vedere dalla cartina,  entra nel mar Tirreno.

E da lì, con la fantasia, potevi andare ovunque nel mondo.

Con le medie si completava anche la nostra puerilità e ci presentavamo nudi e crudi e da un giorno all’altro, con una peluria vana sotto il naso e le ascelle, dentro una battaglia ormonale incredibile che se ci arrochiva la voce ci ingiungeva a soffermarci – immorali - davanti alle pagine pubblicitarie di intimo e di costumi da mare femminili, evidenti su riviste e cataloghi: in poche parole ci affacciavamo all’adolescenza.

Alla fine della quarta ginnasio non portavamo più il grembiule.

Fine della protezione.

Eravamo grandi.

E le differenze cominciavamo a vederle. Erano però differenze che riguardavano la vita fuori dalla scuola: le vacanze, le amicizie, i viaggi, gli sport, le case di villeggiatura. Differenze che nascevano fuori e fuori restavano. Non ho mai visto che entrassero, e pesassero, nella scuola (in questo senso la scuola del passato era perfettamente democratica, ugualitaria). Non era detto che chi si vestiva meglio o andava a sciare nel weekend prendesse voti migliori e andasse avanti di più, questo voglio dire. Non era sul censo e sui privilegi sociali che si giocava la partita. Per questo mi ha sempre dato fastidio che si considerasse il liceo classico una scuola d’élite. Non lo era, o almeno non in modo così eclatante. Se avevi avuto prima, alle medie, insegnanti bravi, capaci di prepararti bene (e naturalmente se poi studiavi), potevi farcela, a qualunque classe sociale appartenessi.

Forse adesso sì, il classico è una scuola d’élite: allora la sceglieva il 20% dei ragazzi, ora arriviamo a malapena al 10%. Paradossi del nostro tempo. Forse non c’entra solo la classe sociale d’appartenenza, o meglio, oggi c’entra meno che mai. La ragione è la difficoltà. Il liceo classico è oggi di una difficoltà insormontabile per la maggioranza dei ragazzi: molti, giustamente, non si sentono all’altezza. Ecco il punto: la scuola precedente (otto anni!) non li ha preparati per quella scelta, quindi non se la possono permettere. È una conseguenza, non una condizione a priori. Ora al classico ci va chi ha avuto la fortuna, alle elementari e medie, di avere insegnanti che tenevano alta l’asticella: questa è oggi la vera élite. E l’ha costruita, abbassando quella benedetta asticella, proprio chi si batteva perché la scuola non fosse d’élite. Studiare, scrivendo, uscivamo preparati, dalle medie. Difficile ora riuscire a spiegare esattamente perché. Una delle ragioni mi sembra fosse la qualità degli insegnanti, la loro preparazione ma anche la severità, e il loro personale fascino: tre ingredienti che li rendevano (non tutti, naturalmente...) dei maestri. L’altra ragione, altrettanto importante, era la qualità delle materie, le cose difficili che si facevano, quanto le si approfondiva, andando in verticale e non perdendosi in rivoli marginali. Ma c’è una terza ragione secondo me, meno ovvia, più nascosta: il modo di studiare. Si studiava scrivendo, alle medie che ho fatto io. È la cosa che ricordo più di ogni altra. Per le materie scritte era ovvio: fiumi di esercizi di matematica, traduzioni dal francese, dal latino, dall’italiano in latino, caterve di frasi di analisi grammaticale, logica e del periodo. E i temi, naturalmente. Non so quanti ce ne dessero da fare a casa, mi pare uno alla settimana, temi che poi in classe ci chiedevano di leggere ad alta voce, alla cattedra, rivolti ai compagni. Ma si studiava scrivendo anche per le materie orali, ed è qui la cosa strana. Di storia, dopo aver letto il capitolo sul libro e aver sottolineato le frasi importanti e aver provato a ripetere a voce alta, ci facevamo uno schema sul quaderno, in pratica riscrivendo il capitolo. Geografia ancora peggio: si studiava rifacendo su un album le cartine, colorate con i pastelli. Cartine delle regioni d’Italia, dei paesi europei, dei continenti, con i monti, le pianure, i fiumi e i laghi. Era così che imparavamo a situare le cose al loro posto. Disegnando ci rimaneva, di ogni territorio, bene impressa la fisicità, se c’erano più montagne o pianure, tanti fiumi o era una terra arida, che coloravamo di un giallino pallido. Erano ore di lavoro, a disegnare e colorare. Io ero particolarmente bravo con le montagne: avevo ideato un sistema, a spina di pesce e a diverse tonalità di marrone, che rendeva bene la montuosità, come fosse in rilievo. Il risultato è che, sommando tutte le materie orali e scritte, si passavano ore e ore, interi pomeriggi e sere, a riempire quaderni. Fiumi e fiumi di pagine. Un lavoro immenso.

E non divertente: era una barba infinita, e una fatica fisica non da poco.  

Comunque mi riuscii anche di innamorarmi di Bruna.

Avevo già conosciuto in terza media questo sentimento strano, quando mi innamorai della giovane professoressa di lettere.

La quale, interrompendo l’Idilio, mi sequestrò, durante la lezione, una poesia che avevo scritto per lei, dove, anche se in maniera criptica e subdola, si capiva benissimo che era dedicata a lei.

La professoressa la sbirciò interessata – senz’altro riconoscendosi – e mentre si dirigeva alla cattedra, ridacchiando, seria, la pose tra le sue carte nella borsetta, poi, seduta in cattedra, scrisse qualcosa che poi mi consegnò severa: era una nota a firma genitoriale per “mancata attenzione in classe”.

Con Bruna era tutto diverso intanto era coetanea, molto bella, il suo viso ricordava la modella della pubblicità del “Venus”, e poi solo a guardarla mi venivano mille pensieri alcuni che mi calmavano, altri che mi infuocavano, altri che mi facevano gonfiare il petto di coraggio altri, infine, che mi intristivano profondamente, come quando, scoprendola civetta, notavo che parlava, interessata, anche con altri compagni.

I sentimenti e le pulsioni del sesso si erano presentati.

L’Amministrazione comunale, già allora progressista, aveva organizzato nei pomeriggi di tre giorni a settimana corsi di “Educazione Sessuale” dove il Segretario comunale, dott. Ghini presiedeva, l’inviato dell’Arcivescovato, don Licurgo, con la sua laurea in psicologia, moderava e il dottor Bencini, medico condotto, per la parte tecnica,  ci spiegavano e ci aprivano gli occhi sui misteriosi godimenti sessuali che poi tanto misteriosi non erano visto che i miei compagni, bisbigliando, anticipavano le risposte.

Mi alzai un mattino e Bruna non mi piacque più.

Non capivo cosa fosse accaduto  ma Bruna non era più nei miei pensieri, glielo dissi nell’intervallo, lei pianse un po’ ed io ero dispiaciuto, da allora non uscimmo più insieme.

Mi piacquero altre ragazze, compagne di scuola e no, ma solo di Aurora mi ricordo bene perché mi obbligò ad indagare.

Infatti una domenica mattina, posi alla mamma che era indaffarata in cucina ed in altre faccende, questa domanda:” Mamma, scusa, ma secondo te, come donna, io sono bello?” chiarendo poi, mellifluo” Aurora me lo dice sempre che quasi ci credo”.

E la mamma, dribblando ogni vana curiosità presente nella domanda vanagloriosa, che, ovviamente, presupponeva una risposta ampiamente affermativa, rispose tranquilla: “O madonnina delle rose, bello bello no, a guardarti bene ce n’hai di difetti, mi dispiace ma non t’ho fatto perfetto, comunque sei un tipo, ecco puoi essere un tipo.”

E completando l’infausta tesi, arrivò dalla porta aperta del bagno, dove il babbo, che aveva ascoltato la domanda e la cui voce era sempre troppo alta anche tra lamette e viso insaponato di schiuma da barba, sentenziò implacabile “O’ cittino, stai in proda, che al mondo ci sarà sempre un bischero più lungo del tuo!”

 

Crescenzo Marra